Con la legge 29 maggio 1855, n. 878 (pubblicata il 30 maggio) il Regno di Sardegna attuò una incisiva politica offensiva nei confronti di un cospicuo numero di enti ecclesiastici, togliendo loro il riconoscimento come enti morali che gli era stato attribuito dall'ordinamento civile. Furono colpite le case degli Ordini religiosi non dediti alla predicazione, né all'educazione, né all'assistenza degli infermi, individuati poi dal regio decreto 29 maggio 1855, n. 879. Oltre gli enti del clero "regolare" furono soppressi nello stesso modo anche molti enti ecclesiastici secolari: i capitoli delle chiese collegiate (eccettuate quelle con cura d'anime o esistenti in città di oltre 20.000 abitanti) e i benefici semplici, i cui investiti non avessero da compiere personalmente alcun servizio religioso.
Veniva prescritto che i beni appartenenti a tali enti, in conseguenza della loro soppressione, passassero alla Cassa ecclesiastica, un ente di nuova creazione, tenuto esplicitamente distinto e indipendente dalle finanze dello Stato, ma la cui Amministrazione era affidata al direttore generale del Debito pubblico, assistito da un Consiglio speciale. Quest'ultimo - del quale facevano parte di diritto il direttore generale e l'economo generale dei benefici vacanti, insieme ad altri cinque membri nominati dal re su proposta del ministro di grazia e giustizia e affari ecclesiastici - avrebbe deliberato sul bilancio (preventivo), il conto (consuntivo), i contratti. L'esecuzione di tali deliberazioni e gli altri atti di amministrazione spettavano al direttore generale, che aveva alle sue dipendenze una struttura amministrativa, a far parte della quale potevano essere chiamati impiegati già in servizio in altri rami dell'amministrazione statale. Il peso che il Ministero di grazia e giustizia e affari ecclesiastici doveva avere nei confronti di questa struttura risulta evidente dal fatto che, per la gestione del patrimonio che le era stato assegnato, essa doveva attenersi alle regole stabilite dalle leggi per gli istituti di carità, con la differenza però che le competenze in quell'ambito proprie del Ministro dell'interno erano in questo caso attribuite al Ministro di grazia e giustizia. Al proposito si possono richiamare le seguenti disposizioni: regio editto 24 dicembre 1836, n. 161, legge 1° marzo 1850, n. 1001, r.d. 21 dicembre 1850, n. 1119, che approva il regolamento per il servizio economico e «finanziere» degli istituti di carità e beneficenza. Subito dopo l'Unità, nel periodo di funzionamento dell'Amministrazione della Cassa ecclesiastica, fu approvata la l. 3 agosto 1862, n. 753 sull'amministrazione delle Opere pie, con il relativo regolamento introdotto dal r.d. 27 novembre 1862, n. 1007.
Sulle operazioni della Cassa avrebbe avuto funzioni di alta ispezione una Commissione di sorveglianza composta da tre senatori e tre deputati eletti annualmente dalle rispettive Camere, e da tre altri membri nominati dal re su proposta del ministro di grazia e giustizia. Tra questi nove componenti il re avrebbe scelto il presidente. Ogni anno la Commissione doveva presentare al sovrano una relazione che sarebbe stata distribuita a stampa alle Camere e fatta pubblicare nel Giornale ufficiale del Regno.
La legge 878/1855 delineava anche i principali compiti dell'Amministrazione. In primo luogo, essa doveva procedere alla presa di possesso dei beni degli enti soppressi. In secondo luogo, avrebbe dovuto pagare un annuo assegnamento ai religiosi colpiti dalla soppressione, i quali comunque venivano mantenuti, finché non si fossero ridotti in numero inferiore a sei, negli edifici fino ad allora occupati o in quelli di altri chiostri nei quali li avrebbe destinati il Governo dopo aver sentito il parere dell'Amministrazione medesima, potendoveli concentrare così, se del caso, con i religiosi provenienti da altre case soppresse. L'annuo assegnamento (o, se si vuole, la pensione) sarebbe stato commisurato alla rendita netta dei beni già posseduti da ciascuna casa soppressa. Ne erano dunque esclusi i religiosi appartenenti agli ordini mendicanti, ai quali per mantenersi veniva consentita, non solo la permanenza nei rispettivi chiostri, ma anche l'esercizio della questua. L'Amministrazione avrebbe dovuto provvedere anche al sostentamento dei canonici appartenenti alle chiese collegiate colpite, liquidando loro, vita natural durante, un'annua somma sempre commisurata alla rendita dei beni da essi perduti. Gli investiti dei benefici semplici soppressi avrebbero invece continuato a goderne l'usufrutto fino alla loro morte o alla perdita per altra causa.
Nel caso di benefici e di canonicati di patronato laicale o misto (ossia ecclesiastico e laico), una volta cessato l'usufrutto appena ricordato, l'Amministrazione doveva curare la procedura per lo svincolo dei beni di cui erano dotati, richiesto dai patroni laici. Essa avrebbe incassato una somma uguale a un terzo del valore devoluto agli interessati, ma anche una porzione dei beni stessi (o un capitale equivalente) per far fronte agli oneri inerenti ai benefici e dei quali si sarebbe dovuta far carico. Inoltre, avrebbe dovuto provvedere alle spese per ufficiatura delle chiese e per l'adempimento di pie fondazioni allorché fossero venuti meno i religiosi o gli ecclesiastici che in precedenza vi erano addetti od obbligati.
Le rendite provenienti dalla soppressione degli enti ecclesiastici colpiti dalla legge sarebbero state utilizzate dalla Cassa ecclesiastica in primo luogo per far fronte agli oneri precedentemente descritti e, quanto al rimanente, per provvedere, nell'ordine di preferenza, a:
- pagare ai parroci congrue e supplementi di congrue già a carico dello Stato prima del 1855;
- pagare al clero della Sardegna il risarcimento per l'abolizione delle decime;
- migliorare la condizione dei parroci dotati di una rendita netta inferiore a mille lire.
Per meglio sopperire a tutte le spese, alla Cassa venne attributo anche il cespite proveniente da una «quota di annuo concorso», che, secondo un principio di proporzionalità al reddito netto, fu posta a carico degli enti ecclesiastici conservati (ossia non soppressi) e degli investiti mantenuti ancora in usufrutto dei benefici soppressi.
Infine, nel caso in cui i conventi o i monasteri fossero rimasti privi dei religiosi colpiti dal provvedimento di soppressione, la Commissione di sorveglianza della Cassa ecclesiastica avrebbe dovuto proporre al Governo le misure opportune per la conservazione dei monumenti, degli oggetti d'arte e degli archivi. In ogni caso, la Commissione medesima avrebbe anche dovuto proporre la destinazione di questi beni, tenendo conto dei bisogni delle pubbliche scuole e specialmente dei collegi nazionali. Le disposizioni in materia sarebbero state adottate con decreti reali pubblicati nel Giornale ufficiale del Regno.
Il r.d. 2 luglio 1855, n. 917 approvava il regolamento per l'esecuzione della legge 878/1855, disciplinando i procedimenti per la presa di possesso dei beni degli enti soppressi (capo II); l'accertamento della rendita netta dei beni assegnati alla Cassa ecclesiastica per la determinazione dell'annuo assegnamento in favore dei religiosi e dei canonici degli enti colpiti (capi III e IV); la fissazione delle quote d'annuo concorso a carico degli enti conservati e degli investiti dei benefici soppressi (capo V); la riscossione dei redditi di competenza della Cassa e la contabilità relativa (capo VI); la stipula dei contratti (capo VII); la compilazione del bilancio e conto annuale (capo VIII).
Il capo I del regolamento era dedicato alla Cassa ecclesiastica, «stabilita presso l'Amministrazione del Debito pubblico», ma con esistenza distinta e indipendente dalle Finanze dello Stato. I rispettivi fondi dovevano essere tenuti separati dal cassiere, il quale, come il direttore, era lo stesso impiegato in servizio al Debito pubblico.
Veniva istituito un Ufficio centrale alle dipendenze del direttore, il quale avrebbe potuto avvalersi anche del consulto e del patrocinio dell'avvocato patrimoniale regio. Al ministro di grazia e giustizia era demandata la richiesta del parere del Consiglio di Stato nei casi prescritti dalla normativa per l'amministrazione degli istituti di carità, e in tutti i casi in cui lo avesse ritenuto opportuno. Era delineata anche la rete amministrativa periferica basata sulle diverse Direzioni demaniali e gli "insinuatori delle tappe", vale a dire gli ufficiali preposti nelle diverse circoscrizioni ("tappe") alla conservazione degli atti notarili. Altre disposizioni riguardavano il Consiglio speciale, e ulteriori, più particolari, ne avrebbe dettate il ministro appena ricordato con un regolamento d'ordine interno, che avrebbe riguardato anche la disciplina degli impiegati dell'Ufficio centrale, la contabilità e l'archivio. Tale previsione fu poi realizzata con decreto ministeriale 19 novembre 1855.
L'Amministrazione della Cassa ecclesiastica vide estendersi la sua competenza anche a quelle regioni della Penisola che di mano in mano vennero annesse allo Stato sabaudo nel progredire del processo di unificazione. La legislazione di soppressione degli enti ecclesiastici fu infatti introdotta in Umbria, mediante il decreto del commissario generale straordinario per le Province dell'Umbria dell'11 dicembre 1860, n. 205, nelle Marche, mediante il decreto del commissario generale straordinario per le Province delle Marche del 3 gennaio 1861, n. 705, nelle province continentali dell'ex Regno delle Due Sicilie, mediante il decreto del luogotenente generale del re nelle Province napoletane del 17 febbraio 1861, n. 251. Con l'introduzione di qualche modifica, tutti questi provvedimenti ricalcavano la normativa sabauda del 1855. Come il decreto sabaudo, anche i tre decreti ora ricordati stabilivano delle eccezioni nel campo degli ordini e congregazioni religiose, sottraendo taluno di essi alla soppressione. Venivano ugualmente dichiarati soppressi alcuni enti del clero secolare (capitoli delle chiese collegiate, benefici semplici, cappellanie ecclesiastiche e laicali, abbazie senza cura d'anime e giurisdizione, fondazioni o legati pii). Nei decreti umbro e marchigiano era sancito il passaggio dei beni dagli enti soppressi alla Cassa ecclesiastica, che li avrebbe amministrati «nelle forme e secondo le norme che le [erano] proprie». Così era detto anche nel decreto napoletano, ma qui si aggiungeva che la Cassa avrebbe agito «per mezzo di una speciale Direzione, da stabilirsi nelle provincie napoletane», con proprio direttore e Consiglio speciale.
A carico della Cassa sarebbe stato, come nel Regno di Sardegna, il pagamento di una «pensione» annuale - commisurata alla rendita netta di ciascuna casa soppressa - alle religiose e ai religiosi degli Ordini «possidenti» (ossia i non mendicanti). Ad essi, tuttavia, in Umbria e nelle Marche, veniva ingiunto di lasciare i loro conventi o monasteri entro quaranta giorni dalla promulgazione dei decreti di soppressione. La facoltà di rimanervi era lasciata invece, oltre che ai religiosi degli ordini mendicanti, alle religiose di ogni ordine. Tale inasprimento della normativa era però assente nel decreto napoletano, che su questo punto non innovava la più mite legge piemontese. Tutti e tre i decreti, infine, non introducevano novità circa il trattamento dei canonici delle chiese collegiate soppresse e degli investiti dei benefici e cappellanie laicali.
Venivano regolate in modo simile alla legge piemontese le questioni relative allo svincolo dei beni appartenenti ai benefici di patronato; e inoltre si riconosceva esplicitamente il diritto dei Comuni, degli enti ecclesiastici conservati e dei privati, di ricevere in restituzione beni già da essi trasferiti agli enti prima della loro soppressione, nel caso fossero stati sopra di ciò stabiliti patti o espresse disposizioni (la cosiddetta riversibilità), e questi fossero stati riconosciuti dagli ordinamenti civili.
La Cassa avrebbe dovuto provvedere, come già stabilito dalla normativa sabauda, all'ufficiatura delle chiese che, per effetto delle soppressioni, fossero rimaste sprovviste di sacerdoti ufficianti; e lo stesso avrebbe dovuto fare per l'adempimento degli obblighi annessi alle pie fondazioni.
Rispetto alla legge sarda, alcune differenze si presentavano circa gli obblighi a cui avrebbe dovuto far fronte la Cassa ecclesiastica, una volta provveduto a quelli appena sopra descritti. In primo luogo, una parte delle rendite provenienti dagli enti soppressi sarebbe stata destinata alla pubblica istruzione e agli istituti pii e di beneficenza (nei decreti umbro e marchigiano), o all'istruzione popolare e tecnica (nel decreto napoletano). In secondo luogo, si sarebbe provveduto al pagamento delle congrue o dei supplementi di congrua ai parroci: assegnati loro dal Governo (nei decreti umbro e marchigiano), o in caso di impossibilità di pagamento da parte dei Comuni (nel decreto napoletano). In terzo luogo, sarebbero stati elargiti sussidi al clero più bisognoso e per altri usi di beneficenza, non esclusi quelli in favore della pubblica istruzione.
Per permettere alla Cassa di provvedere a tutti questi obblighi, le sue rendite patrimoniali sarebbero state incrementate dalla quota di annuo concorso, che pertanto veniva istituita anche in Umbria, nelle Marche e nelle province napoletane, a carico degli enti conservati e degli investiti a cui era stato lasciato provvisoriamente l'usufrutto dei benefici soppressi.
I tre decreti provvedevano poi alla devoluzione dei libri e dei documenti scientifici appartenuti alle case religiose soppresse, nonché alla conservazione o alla devoluzione dei monumenti e oggetti d'arte delle case religiose e delle chiese collegiate soppresse: i decreti umbro e marchigiano formulando una serie articolata di disposizioni; il decreto napoletano presentando un testo più generico esemplato su quello della legge piemontese.
Infine, veniva disposto che un certo numero di fabbricati conventuali e monastici sarebbe passato ai Comuni. Quelli dell'Umbria ne avrebbero ricevuti dodici e quelli delle Marche trentuno, tutti in piena proprietà. Nel decreto napoletano, invece, il numero non veniva precisato e l'assegnamento ai Comuni, per aprirvi scuole o per altri usi di pubblica utilità, doveva intendersi come concessione in uso, poiché era detto che i fabbricati sarebbero rimasti a disposizione del Governo.
Nelle province napoletane la gestione del patrimonio fu affidata, come nello Stato sabaudo, agli agenti dell'amministrazione demaniale. Nell'Umbria e nelle Marche, invece, con il r.d. 8 dicembre 1861, n. 394 fu istituita una struttura periferica specifica, sottoposta all'Ufficio centrale di Torino. Con il r.d. ora richiamato e con quello subito seguente r.d. 8 dicembre 1861, n. 408 novies, nonché con il r.d. 13 ottobre 1861, n. 319 (per l'esecuzione del decreto napoletano di soppressione), veniva perfezionata l'organizzazione della Cassa ecclesiastica in tutti quei territori dell'Italia appena unificata nei quali essa aveva competenza, al fine di sostenere la gestione dell'ingente patrimonio mobiliare e immobiliare proveniente dagli enti soppressi.
Tuttavia, la promulgazione della l. 21 agosto 1862, n. 794 diede subito l'avvio a un processo di profonda modifica della composizione patrimoniale della Cassa, sottraendole tutti i beni immobili acquisiti in forza della soppressione, per assegnarli al Demanio dello Stato, che avrebbe dovuto curarne la vendita ai privati, sulla base della l. 21 agosto 1862, n. 793, con la quale il Governo era stato autorizzato all'alienazione dei beni demaniali non destinati ad uso pubblico o richiesti per pubblico servizio (il regolamento fu approvato dal r.d. 14 settembre 1862, n. 812).
La Cassa ecclesiastica avrebbe ricevuto in cambio una rendita del 5% del Debito pubblico, uguale alla rendita dei beni perduti. Quest'ultima sarebbe stata determinata - sulla base dei contratti, dei registri di amministrazione e dei catasti o, in caso di insufficienza o mancanza di tali documenti, sulla base di perizie sommarie - dal ministro delle finanze insieme a quello di grazia e giustizia e dei culti, con il parere della Commissione provinciale per l'accertamento del valore dei beni demaniali, istituita dalla l. 793/1862. I beni destinati alla vendita sarebbero stati liberati dagli oneri che eventualmente li avessero gravati, trasferendoli sulla rendita assegnata alla Cassa. Dal passaggio al Demanio erano esclusi gli immobili rivendicabili da terzi per diritto di riversibilità; quelli che fossero oggetto di contenzioso; quelli annessi ai benefici di patronato, per i quali veniva sospeso lo svincolo da parte dei patroni laici in Umbria, nelle Marche e nelle province napoletane. Questi ultimi, infatti, avrebbero dovuto attendere, per esercitare il loro diritto, una nuova legge in base alla quale sarebbe stato il Demanio a beneficiare delle somme pagate per lo svincolo (cfr. la l. 3 luglio 1870, n. 5723). Erano esclusi dal trasferimento anche quegli immobili che nelle province napoletane dovevano essere assegnati in uso ai Comuni per servizi di pubblica utilità, anzi la possibilità di un'assegnazione di questo tipo veniva estesa a tutte le province in cui era stata istituita la Cassa ecclesiastica. Inoltre, il Governo avrebbe potuto alienare a trattative private altri immobili, sempre ai Comuni che ne avessero fatto richiesta entro sei mesi dalla presa di possesso. Il regolamento attuativo di questa legge fu approvato dal r.d. 25 settembre 1862, n. 855, che richiama il precedente r.d. 812/1862.
L'ingente operazione di trasferimento dei beni immobili al Demanio era ancora in corso, quando la Cassa ecclesiastica fu soppressa dal regio decreto luogotenenziale 7 luglio 1866, n. 3036 (pubblicato l'8 luglio) e il suo patrimonio fu attribuito al nuovo ente patrimoniale denominato Fondo per il culto che ne prendeva il posto, istituito nell'ambito della generale soppressione delle case appartenenti agli ordini e alle congregazioni religiose presenti su tutto il territorio nazionale.