Insieme all'amministrazione del Demanio, dipendente dal Ministero delle finanze, quella del Fondo per il culto fu chiamata ad applicare le norme previste dalla legislazione di soppressione degli enti ecclesiastici varata dopo l'Unificazione, e soprattutto ad amministrare l'ente patrimoniale (il Fondo per il culto appunto) a cui quelle norme attribuirono le rendite provenienti dai beni appartenuti agli enti soppressi, nonché le sostanze della cessata Cassa ecclesiastica.
Quest'ultima fu abolita dalla stessa norma che istituì l'Amministrazione del Fondo per il culto, il regio decreto luogotenenziale 7 luglio 1866, n. 3036 (entrato in vigore il 23 luglio). L'Amministrazione ebbe speciali caratteri di autonomia: posta, infatti, alle dipendenze del ministro di grazia e giustizia e dei culti, fu però affidata alla guida di «un direttore assistito da un Consiglio di amministrazione, nominati tutti per decreto reale» (art. 26). Oltre a dettagliare meglio la composizione e le funzioni del Consiglio, il d.lgt. 21 luglio 1866, n. 3070 (recante il regolamento del precedente decreto luogotenenziale) stabiliva quali fossero i provvedimenti che dovevano essere sottoposti all'approvazione del ministro, prescriveva che l'ufficio dell'Amministrazione fosse stabilito a Firenze, con un cassiere centrale e un controllore e, per il momento, secondo il bisogno, con gli impiegati già in servizio presso l'Ufficio centrale di Torino e la Direzione speciale di Napoli della Cassa ecclesiastica. L'Amministrazione non ebbe mai un proprio specifico apparato periferico, ma furono posti al suo servizio i contabili demaniali, controllati a livello centrale da un servizio ispettivo e tenuti a tenere distinte la gestione degli interessi del Fondo per il culto (che prevedeva premi sulle somme riscosse) e quella ordinaria dei beni demaniali. Le Direzioni demaniali, in cui erano inquadrati questi contabili, furono sostituite nel 1869 dalle Intendenze di finanza, che, alle dirette dipendenze dell'Amministrazione, dovevano gestire il servizio dei cespiti di rendita posseduti nelle province dal Fondo per il culto (regio decreto 26 settembre 1869, n. 5286 e regolamento approvato con r.d. 18 dicembre 1869, n. 5397). In seguito il r.d. 30 ottobre 1870, n. 6042 (istituzione presso le Intendenze di finanza di una Sezione apposita per il servizio dell'Asse ecclesiastico), all'art. 1, demandò alle Intendenze, oltre l'amministrazione dei beni, tutti gli affari concernenti l'esecuzione delle leggi di soppressione. Con l'estensione al Fondo delle norme di contabilità di Stato e della giurisdizione della Corte dei conti nel 1874, l'intendente divenne il capo di tutta l'azienda nella rispettiva provincia, in rappresentanza del direttore generale, così come assunsero tale rappresentanza nel distretto di competenza anche i ricevitori demaniali, dipendenti dall'intendente.
L'alta ispezione sulle operazioni concernenti il Fondo per il culto venne affidata a una Commissione di vigilanza, composta da nove membri: tre deputati e tre senatori eletti dalle rispettive Camere, nonché tre altre persone nominate dal re, al quale spettava anche di designare il presidente. Alla Commissione andavano presentati i bilanci, lo stato delle pensioni liquidate ai religiosi, la situazione della rendita e degli edifici destinati agli aventi diritto; ed essa poi doveva presentare annualmente al re una relazione, che peraltro sarebbe stata distribuita al Parlamento (d.lgt. 3036/1866, art. 26).
Il r.d. 14 dicembre 1866, n. 3384 ribadì la dipendenza dell'Amministrazione dal Ministero di grazia e giustizia e dei culti nei termini già stabiliti dal d.lgt. 3036/1866 e del relativo regolamento, parificandola peraltro alle altre Amministrazioni dello Stato nei diritti e prerogative. Successivamente la legge 15 agosto 1867, n. 3848, all'art. 21 avrebbe attribuito all'Amministrazione i privilegi fiscali determinati dalle leggi per la riscossione delle imposte. Ciò significava che essa poteva procedere con semplici ingiunzioni alle quali la legge dava carattere esecutivo. La sua particolare posizione tuttavia si rifletteva in quella del suo capo, al quale veniva attribuito il rango di direttore generale - mentre nello stesso periodo il Ministero era strutturato in divisioni - e a cui fu data l'autorizzazione di rappresentare l'Amministrazione nei giudizi civili senza il concorso di avvocati, patrocinatori o procuratori (r.d. 28 luglio 1866, n. 3122). Egli doveva essere nominato dal re, su proposta del guardasigilli, in seguito a deliberazione del Consiglio dei ministri.
Sin dai primi anni della sua esistenza l'autonomia dell'Amministrazione si andò tuttavia attenuando. Già con il r.d. 30 settembre 1869, n. 5299 i provvedimenti da essa adottati e quelli deliberati dal suo Consiglio di amministrazione, quando fossero oggetto di opposizione o gravame dalle parti interessate, potevano essere revisionati dal Ministero di grazia e giustizia e dei culti, previo il parere del Consiglio di Stato, mentre per i bilanci preventivi e consuntivi erano obbligatori l'esame e l'approvazione del Ministero medesimo. Nel 1874, poi, l'Amministrazione venne sottoposta alla disciplina normativa sulla contabilità generale dello Stato e i suoi atti furono assoggettati al controllo della Corte dei conti, con l'obbligo di rimborsare annualmente lo Stato per questo nuovo servizio imposto alla magistratura contabile (l. 22 giugno 1874, n. 1962, e relativo regolamento approvato dal r.d. 29 ottobre 1874, n. 2189. La contabilità generale dello Stato era allora regolamentata dalla l. 22 aprile 1869, n. 5026, poi dal r.d. 17 febbraio 1884, n. 2016 e relativo regolamento approvato dal r.d. 4 maggio 1885, n. 3074). Infine, la competenza del Consiglio di amministrazione in ordine al bilancio fu nettamente sminuita dalla l. 14 agosto 1879, n. 5035, che impose la presentazione dei bilanci preventivi e dei resoconti annuali all'approvazione del Parlamento in appendice a quelli del Ministero di grazia e giustizia e dei culti. In seguito a ciò la Commissione di vigilanza ritenne di non dover più presentare la sua relazione a scadenza fissa (l'obbligo, come si è detto era annuale) ed in seguito tale incombenza venne di fatto a cessare.
Alla fine del 1876 gli uffici furono trasferiti da Firenze a Roma.
Dal 1877 l'Amministrazione assunse la denominazione di «Direzione generale del Fondo per il culto», come si desume dal r.d. 30 ottobre 1877, n. 4144) e come viene confermato dal «Calendario generale del Regno d'Italia», anno 1877, nonché dall'intestazione delle circolari emanate dall'ufficio a partire da quell'anno.
Con il r.d. 1° settembre 1885, n. 3341 alla Direzione generale fu affidata la gestione del Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma, istituito dalla l. 19 giugno 1873, n. 1402. Pertanto essa si trova con la denominazione di «Direzione generale del Fondo per il culto e dell'amministrazione dell'asse ecclesiastico di Roma», a partire dal 1886, e «Direzione generale del Fondo per il culto e del Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma», a partire dal 1897, come si può rilevare dall'«Annuario» del Ministero di grazia e giustizia e dei culti. Per la gestione del Fondo speciale era prevista una contabilità separata e l'osservanza delle stesse norme che disciplinavano l'amministrazione del Fondo per il culto, compresa «la presentazione al Parlamento, per organo del Ministro di grazia e giustizia e dei culti, dei bilanci preventivi e dei resoconti consuntivi». Con la l. 14 luglio 1887, n. 4728 venne peraltro istituito un Consiglio di amministrazione che doveva sovraintendere alle operazioni di stralcio relative all'Asse ecclesiastico di Roma e all'amministrazione del menzionato Fondo speciale.
Il r.d. 2 dicembre 1923, n. 2572 sull'ordinamento degli uffici e del personale del Ministero della giustizia e degli affari di culto (così denominato dal 1919) dispose che la Direzione generale dei culti avrebbe dovuto ricomprendere anche gli uffici di quella del Fondo per il culto, e che, entro il 31 marzo dell'anno successivo, si sarebbero dovuti riordinare i servizi della Direzione soppressa, determinando anche il numero delle divisioni fra cui ripartirli. In verità fu più tardi, con il r.d. 29 giugno 1924, n. 1086, che si procedette al previsto riordinamento, stabilendo che gli uffici dell'estinta Direzione generale del Fondo per il culto erano soppressi dal 31 dicembre 1924, ma senza nulla disporre circa il numero delle divisioni in cui articolare i servizi. Il patrimonio già amministrato dalla soppressa Direzione avrebbe dovuto costituire «un ente autonomo, annesso al Ministero della giustizia e degli affari di culto, mantenendo il titolo di Fondo per il culto, col proprio Consiglio di amministrazione e con bilancio separato e distinto da quello statale», ma la sua gestione era affidata al direttore generale degli affari di culto, «con la qualità di amministratore» al quale era assegnata anche la gestione del Fondo speciale di religione e beneficenza nella città di Roma.
Il citato regio decreto delinea una generale bipartizione delle competenze. Al Ministero spettavano, oltre agli affari non di mera amministrazione e la revisione delle deliberazioni del Consiglio di amministrazione (sentito il Consiglio di Stato), alcuni affari relativi all'applicazione delle leggi di soppressione (accertamento della natura giuridica degli enti, concentramenti delle monache e delle istituzioni di beneficenza, chiusura delle chiese al culto), la devoluzione di legati in favore dei danneggiati dalle truppe borboniche, e soprattutto la preparazione dei progetti dei bilanci del Fondo per il culto e del Fondo speciale per Roma, sentiti i rispettivi Consigli di amministrazione. I progetti andavano poi sottoposti al Parlamento a cura del ministro per le finanze, come prescriveva il regolamento sulla contabilità generale dello Stato (approvato con r.d. 23 maggio 1924, n. 827). Ma al Ministero spettava anche la «concessione, sentito il Ministero degli affari esteri, dei sussidi ai missionari ed agli altri sacerdoti all'estero; degli assegni per manutenzione ed ufficiatura di chiese e cappelle aperte al culto cattolico nelle Colonie e all'estero; delle sovvenzioni a beneficio delle Missioni italiane in Oriente; del godimento delle pensioni all'estero». D'altro lato all'«Amministrazione autonoma», così la definiva l'art. 3, erano attribuiti tutti gli altri servizi e funzioni centrali della disciolta Direzione generale. Si ha l'impressione che gli uffici di essa siano in realtà rimasti in piedi anche se probabilmente posti alle dipendenze degli impiegati direttivi della Direzione generale degli affari di culto. Anche in periferia, come appare dall'art. 4, alle dipendenze della Direzione generale degli affari di culto, le Intendenze di finanza, gli Uffici del registro, gli ispettori demaniali del Fondo per il culto, le Direzioni provinciali del tesoro e le Sezioni di tesoreria continuavano a curare la gestione dei due Fondi. Di tutti questi uffici il regio decreto disciplinava con ampiezza le competenze.
Il tentativo, appena abbozzato e rimasto praticamente sulla carta, di concentrare l'amministrazione dei due Fondi nella Direzione generale per gli affari di culto, vide un primo arretramento sul piano normativo con la l. 14 aprile 1927, n. 514, che affidò la direzione dell'«Amministrazione autonoma del Fondo per il culto e del Fondo di religione e beneficenza per la città di Roma» ad un «amministratore generale, alla immediata dipendenza del ministro per la giustizia e gli affari di culto», ed equiparato a tutti gli effetti ai direttori generali. Secondo la relazione al disegno di legge, l'importanza della Direzione generale del Fondo per il culto era tale da assorbire interamente l'attività del suo capo, che non avrebbe dunque potuto essere gravato da altre rilevanti responsabilità amministrative, a volte anche in contrasto con quelle del Fondo stesso. L'autonomia giuridica e patrimoniale di quest'ultimo era consigliata sia per il buon andamento dell'amministrazione, ma anche per considerazioni di ordine politico, poiché, per quanto il patrimonio del Fondo dovesse ormai essere integrato in misura cospicua dalla finanza statale per poter servire alle sue finalità, permaneva il carattere specifico della destinazione delle sue rendite ed era bene che si conservasse non solo un segno esteriore di ciò, ma anche una amministrazione distinta.
Si potrebbe dunque affermare che la breve parentesi aperta con il r.d. 2572/1923 si sia ridotta ad una trasformazione momentanea e puramente nominalistica dell'amministrazione. La definitiva sistemazione di essa, prevista anche nella citata l. 514/1927, si realizzò nell'ambito della normativa emanata in seguito al Concordato dell'11 febbraio 1929, con il ripristino di una Direzione generale, per tenere la distinta gestione, concentrata tuttavia nel Ministero della giustizia e degli affari di culto, non solo dei patrimoni del Fondo per il culto e del Fondo speciale per usi di beneficenza e di religione nella città di Roma, ma anche di quello costituito nello stesso provvedimento normativo mediante la riunione dei patrimoni dei soppressi Economati generali dei benefici vacanti e dei Fondi di religione delle province ex austriache (l. 27 maggio 1929, n. 848, artt. 18 e 19). Si ricostituiva in tal modo una Direzione generale il cui compito specifico era appunto quello di amministrare i patrimoni provenienti dagli enti ecclesiastici soppressi, per fini che dovevano rimanere circoscritti alla sfera del culto. Ma il dettato normativo chiariva inequivocabilmente la posizione di tale Direzione generale, come amministrazione statale (art. 20), dipendente, al pari delle altre Direzioni, dal Ministero della giustizia: quest'ultimo assumeva direttamente la gestione dei patrimoni anzidetti ed il ministro ne diveniva perciò il legale rappresentante, ciò comportando che le funzioni del direttore generale non derivavano più dalla legge ma dalla delegazione del ministro stesso. Cessava in tal modo ogni traccia di autonomia dell'organo deputato all'amministrazione dei patrimoni, pur rimanendo l'autonomia di questi ultimi, nello spirito che già aveva animato la legislazione eversiva. La «Direzione generale del Fondo per il culto» (così denominata dal r.d. 2 dicembre 1929, n. 2262, di approvazione del regolamento esecutivo della l. 848/1929) veniva ad aggiungersi alle altre quatto Direzioni generali, all'Ispettorato generale e all'Ufficio legislativo, in cui era stato articolato il Ministero della giustizia e degli affari di culto dal precedente r.d. 27 ottobre 1927, n. 2187. Per la sistemazione dei servizi e del personale della Direzione generale si veda anche il r.d. 11 gennaio 1930, n. 29.
La normativa concordataria introduceva poi importanti modifiche nella composizione dei Consigli di amministrazione, che avrebbero dovuto essere «formati per metà con membri designati dall'autorità ecclesiastica» (Concordato, art. 29, lett. e: cfr. l. 29 maggio 1929, n. 810). Il Fondo speciale per Roma manteneva un proprio Consiglio di amministrazione, mentre quello del Fondo per il culto avrebbe dovuto deliberare anche sugli affari inerenti al patrimonio dei soppressi Economati generali dei benefici vacanti e dei Fondi delle province ex austriache. A proposito delle competenze dei Consigli di amministrazione, si deve notare che da esse scomparve quella relativa alla formazione del bilancio, il quale, veniva ribadito dalla norma, doveva essere presentato all'approvazione del Parlamento, «unitamente agli stati di previsione dell'entrata e della spesa e ai consuntivi del Ministero della giustizia» (l. 848/1929, art. 20 e r.d. 2262/1929, art. 58): veniva così sanzionata anche formalmente la perdita di tale funzione, avvenuta di fatto, come si è detto, dal 1879.
Con il r.d. 20 luglio 1932, n. 884 vennero trasferite dal Ministero della giustizia e degli affari di culto al Ministero dell'interno tutte le attribuzioni della Direzione generale degli affari di culto e della Direzione generale del Fondo per il culto e del Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma (in questo contesto la denominazione della Direzione generale appare più estesa, mentre quella del Ministero è modificata in Ministero di grazia e giustizia). Il regio decreto-legge 19 agosto 1932, n. 1080 (convertito dalla l. 6 aprile 1933, n. 455) dettava le norme in dettaglio per il passaggio dei servizi da un Ministero all'altro, stabilendo che i poteri in materia di culti spettanti al Ministero di grazia e giustizia, alle Procure generali del re presso le Corti di appello e agli Uffici per gli affari di culto presso le Procure stesse erano devoluti rispettivamente al Ministero dell'interno e alle Prefetture. Venivano poi stabilite norme, anche in via provvisoria, per il trasferimento del personale degli Uffici per gli affari di culto e delle due Direzioni generali al Ministero dell'interno. Il successivo r.d.l. 28 settembre 1933, n. 1281 (convertito dalla l. 5 febbraio 1934, n. 522) stabilì che le due Direzioni generali, denominate come sopra, costituivano due Direzioni generali del Ministero dell'interno e modificavano di conseguenza i ruoli organici del personale appartenente ai due dicasteri coinvolti.
Il r.d. 15 aprile 1940, n. 452, che ripartiva i servizi dell'Amministrazione centrale del Ministero dell'interno in otto Direzioni generali più l'Istituto di sanità pubblica, introduceva la nuova denominazione, più breve, di «Direzione generale del Fondo per il culto».
Infine, nell'ambito della soppressione di uffici centrali e periferici delle amministrazioni statali, disposta dal decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 617, le Direzioni generali degli affari di culto e del Fondo per il culto furono fuse, a decorrere dal 1° ottobre 1977, in un'unica direzione generale che assunse la denominazione di «Direzione degli affari dei culti».
Con il regio decreto 14 dicembre 1866, n. 3384 il servizio dell'Amministrazione del Fondo per il culto venne ripartito in divisioni ed uffici, le cui attribuzioni dovevano essere definite da un regolamento d'ordine interno (principio ribadito in un successivo r.d. 18 marzo 1875, secondo il quale le attribuzioni sarebbero state stabilite dal direttore generale secondo le necessità del servizio), ed era approvata una speciale pianta organica del personale con i relativi stipendi, a far parte della quale erano chiamati preferibilmente i dipendenti del Ministero di grazia e giustizia e dei culti, della disciolta Cassa ecclesiastica e degli Economati generali dei benefici vacanti. Gli impiegati, tuttavia, avrebbero goduto delle stesse prerogative riconosciute agli impiegati delle Amministrazioni centrali dello Stato. Venivano stabiliti i principî generali, secondo i quali la nomina dell'ispettore generale, dei direttori capi di divisione, dei capi sezione, del cassiere, dei segretari, dei vicesegretari, e del controllore era demandata al re, su proposta del guardasigilli, sentito il direttore generale; la nomina dei primi commessi e dei commessi era effettuata con decreto ministeriale su proposta del direttore generale, mentre quest'ultimo, infine, nominava direttamente gli uscieri e gli inservienti. Ad un regolamento speciale da approvarsi con decreto reale era demandata la definizione delle modalità per le nomine, le promozioni, gli aumenti di stipendio e la disciplina.
La prima pianta organica del personale, stabilita dal citato r.d. 3384/1866, prevedeva in totale 75 impiegati, compresi il direttore generale, l'ispettore generale, il cassiere, il controllore. Si deduce un'articolazione in tre divisioni e sei sezioni (altrettanti sono i funzionari con le qualifiche di capi divisione e capi sezione). Gli altri impiegati di concetto erano complessivamente 24 (10 segretari e 14 vicesegretari), mentre quelli della carriera d'ordine 32 (tra primi commessi e commessi). Vi erano infine 6 fra uscieri ed inservienti.
Dal ruolo organico approvato dal r.d. 18 marzo 1877, n. 3762 si può inferire che una divisione di ragioneria fu aggiunta alle tre amministrative precedenti. L'organico - articolato in tre categorie di impiegati cui si aggiungeva il personale di servizio (uscieri e inservienti) - registrava un'espansione numerica, poiché erano previsti in totale 114 impiegati. Si segnala soprattutto la presenza di addetti al servizio ispettivo (che facevano parte della prima categoria, relativa agli impiegati di concetto, comprendente dal direttore generale ai vicesegretari): 12 ispettori di prima, seconda e terza classe, destinati a controllare gli uffici provinciali mediante trasferte. Inoltre, si verifica un forte incremento del personale di ragioneria (che costituiva la seconda categoria: oltre al cassiere centrale economo e al controllore, un capo divisione di ragioneria, un capo sezione e 36, fra segretari e vicesegretari di ragioneria). Erano previsti per la terza categoria (impiegati d'ordine) un archivista capo, 6 archivisti, 12 ufficiali d'ordine.
Dal 1877 l'Amministrazione (con la denominazione di Direzione generale) ebbe una lieve riduzione di organico, come si desume dal r.d. 30 ottobre 1877, n. 4144, nel quale il numero dei capi divisione di prima categoria appare ridotto da tre a due. Il numero dei posti in ruolo venne di nuovo aumentato, passando a 121 con il r.d. 21 agosto 1881, n. 413, e ancora a 133, come si rileva dal r.d. 2 agosto 1884, n. 2601. Per un raffronto, si consideri che il ruolo organico dell'amministrazione centrale del Ministero di grazia e giustizia e dei culti (stabilito con r.d. 1 marzo 1881, n.90) prevedeva un totale di 156 unità, compreso il ministro.
Per la descrizione analitica delle unità organizzative e delle relative funzioni ci si è serviti dell'«Annuario giudiziario» e del «Calendario generale del Regno». La prima descrizione completa figura nel volume relativo al 1881 dell'«Annuario giudiziario». La Direzione generale era strutturata in un ufficio di segreteria e di ispezione e tre divisioni, articolate in sezioni. L'ufficio di segreteria si occupava delle relazioni con il Parlamento, la Commissione di vigilanza, la Corte dei conti, le Intendenze di finanza e gli uffici del Demanio (includeva peraltro il servizio di ispezione); trattava gli affari riservati o delegati al Direttore generale, nonché la corrispondenza non attribuita alle altre divisioni; attendeva al servizio decreti e alla tenuta del massimario e dell'inventario della consistenza patrimoniale; curava i servizi generali della Direzione (posta, archivio, protocollo, copisteria generale) e l'amministrazione del personale. Alla divisione I erano attribuiti tutti gli atti di gestione del patrimonio proveniente dagli enti secolari soppressi, nonché gli affari attinenti alla quota di concorso, al supplemento di congrua ai parroci, alle spese di culto già a carico del bilancio statale. Alla divisione II era assegnata la gestione del patrimonio proveniente dalle corporazioni religiose soppresse («patrimonio regolare»), nonché il passaggio dei beni immobili della disciolta Cassa ecclesiastica al Demanio in forza della legge 21 agosto 1862, n. 794. La divisione III espletava funzioni di ragioneria.
Negli anni 1883 e 1884 l'ufficio di segreteria fu trasformato in divisione di segreteria, e infatti, conservando le precedenti attribuzioni, accentrò in sé alcune di quelle prima assegnate alle altre tre divisioni amministrative: appuramento e riscossione delle rendite, spese di culto, supplementi di congrua, pensioni ai religiosi, dal 1886 anche liquidazione del quarto di rendita ai Comuni.
Per far fronte all'aumento di competenze derivante dalla gestione del Fondo speciale per Roma, il r.d. 1° settembre 1885, n. 3341 previde, fra l'altro, che fosse istituita presso la Direzione generale, a spese del bilancio dell'asse ecclesiastico di Roma, una nuova divisione ed un ufficio di ragioneria, ai quali potevano essere destinati gli impiegati del cessato Commissariato per la liquidazione del medesimo asse. Così alle quattro divisioni si aggiunsero, per la gestione dell'asse ecclesiastico di Roma, una divisione amministrativa ed una divisione di ragioneria (diretta però da un capo ragioniere). Dal 1888 al 1892 esse assunsero le denominazioni rispettivamente di divisione IV e di ufficio di ragioneria. Il ruolo organico dei nuovi uffici fu stabilito con r.d. 25 settembre 1885, n. 3365, dal quale risultano 5 posti per la divisione amministrativa, 7 posti per l'ufficio di ragioneria, 4 per l'archivio e ufficio d'ordine ed infine 3 posti per il personale di servizio. La l. 14 luglio 1887, n. 4728 (conversione del r.d. 3341/1885) provvide a precisare che, pur retribuiti a carico dell'asse ecclesiastico di Roma, gli impiegati addetti ai nuovi uffici entravano a far parte di un unico ruolo di anzianità comune a tutta la Direzione generale. In virtù del r.d. 17 settembre 1887, n. 4978 vennero aggiunti a tale ruolo organico i 19 posti sopra indicati con la medesima distribuzione, ma con l'aggiunta di ulteriori due posti nella carriera amministrativa.
Nel complesso i posti in ruolo dell'intera Direzione generale salirono nel 1888 a 165 (r.d. 8 luglio 1888, n. 5611). Per inciso, il regolamento sulle nomine e promozioni del personale della Direzione generale era stato approvato dal r.d. 8 febbraio 1885, n. 3115.
Negli anni 1893-1894 il quadro delle attribuzioni non appare mutato molto rispetto a quello già descritto per gli anni 1881-1884, ma risulta distribuito su un numero maggiore di unità organizzative, che, escluse le due destinate all'amministrazione dell'Asse ecclesiastico di Roma, passarono da quattro a cinque, con la comparsa di un ufficio di gabinetto nel 1894. Quest'ultimo assunse alcuni servizi già di competenza della divisione I: l'apertura e la distribuzione della corrispondenza fra le divisioni, le relazioni con il Parlamento e la Commissione di vigilanza, il Consiglio di amministrazione, la trattazione di tutti gli affari che il direttore avocava a sé, nonché, a partire dal 1895, i servizi di protocollo e archivio, degli ispettori provinciali, la gestione del personale, con i decreti relativi al personale (e conseguenti rapporti con la Corte dei conti), la risoluzione delle questioni di massima.
Alla divisione I (segreteria) e, precisamente alla sezione I, rimasero affidate la trattazione di alcune questioni conseguenti all'applicazione delle norme di soppressione (concentramento delle religiose; riparazione e cessione dei fabbricati monastici; chiusura delle chiese al culto; devoluzione degli oggetti d'arte e dei libri; mantenimento di chiese aperte al culto a spese del Fondo, comprese quelle di regio patronato e quelle già spettanti alle case gesuitiche e liguorine di Sicilia; manutenzione degli immobili soggetti a contestazioni, svincolo, riversibilità, oppure devoluti al Fondo a seguito di debiti non soluti). Di grande importanza era poi la vigilanza sull'appuramento e la riscossione delle rendite mobiliari, che rappresentavano il maggior cespite di entrata del Fondo per il culto dopo la rendita pubblica inscritta a suo favore dal Demanio. La sezione II gestiva i principali oneri gravanti sul patrimonio del Fondo per il culto: pensioni ai religiosi; sussidi ai missionari all'estero; supplementi di congrua ai parroci; accertamento ed assegnazione delle spese di culto già a carico dello Stato; adempimento dei legati pii inerenti agli enti soppressi; sussidi al clero sardo; devoluzione di legati pii all'Azienda dei danneggiati dalle truppe borboniche in Sicilia; concessione di assegni in compenso dell'abolizione delle decime (l. 14 luglio 1887, n. 4727); liquidazione del quarto di rendita ai Comuni. Infine, l'ufficio era incaricato della tenuta del massimario, ossia la raccolta dei principî espressi dalla giurisprudenza.
Alla divisione II, e precisamente alle sezioni I e III, competeva la gestione del patrimonio proveniente dagli enti secolari soppressi (compreso l'appuramento di cui si è detto), mentre alla sezione II erano affidati servizi riguardanti l'intero patrimonio del Fondo per il culto: accertamento delle passività patrimoniali non ancora inscritte in bilancio, affrancazione di rendite perpetue, commutazione in denaro delle rendite in natura, oneri per legati di maritaggio non ancora trasferiti alle Congregazioni di carità, vigilanza sulla liquidazione e riscossione della quota di annuo concorso.
Le attribuzioni della divisione III riguardavano in primo luogo la gestione del patrimonio proveniente dalle corporazioni religiose soppresse, compreso l'appuramento (sez. I), in secondo luogo incombenze di carattere generale, fra le quali gli affari relativi ai rapporti con il Demanio, la vendita di immobili pervenuti al Fondo per il culto per insolvenza di debitori, l'affitto di immobili, il trasferimento alle Congregazioni di carità dei legati disposti a favore degli enti soppressi ed aventi finalità di beneficenza, l'inventario patrimoniale (sez. II).
La contabilità del Fondo per il culto era affidata alla divisione IV, mentre quella relativa all'asse ecclesiastico di Roma era, come si è visto, competenza di un apposito ufficio di ragioneria, al servizio della divisione V.
Con il r.d. 8 luglio 1894, n. 288, che ridusse i posti in organico a 141, pur mantenendo separata la contabilità del Fondo speciale per Roma da quella del Fondo per il culto, la divisione V fu ridotta a sezione (dipendente dalla divisione III), alle ragionerie di ciascuna amministrazione fu preposto un unico capo di divisione di ragioneria e fu previsto, infine, un solo cassiere per tutta la Direzione generale. Si ebbero così, per il periodo 1895-1902, un gabinetto (che, dopo aver assorbito nel 1899 anche gli affari relativi al quarto di rendita ai Comuni, nel 1900 venne sostituito da un ufficio affari generali con le medesime attribuzioni, articolato in due sezioni). Si tenga conto, peraltro, che all'inizio del 1901 l'organico fu ampliato con una «speciale classe transitoria [ad esaurimento] di ufficiali d'ordine» di 24 posti per collocarvi gli scrivani straordinari in servizio da oltre 8 anni (r.d. 3 gennaio 1901, n. 2).
Il periodo successivo vide un incremento del numero dei posti in ruolo, che da 141 salì a 184 nel 1904 (l. 16 luglio 1904, n. 374) e a 190 nel 1911 (l. 13 aprile 1911, n. 328) La struttura della Direzione generale registrava un'intensa elaborazione organizzativa ed una notevole espansione: da un'articolazione basata su un ufficio affari generali, tre divisioni e una ragioneria, si passò, negli anni 1903-1919, a una articolazione secondo il seguente schema:
- gabinetto del direttore generale, al quale era aggregato anche il Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma;
- quattro divisioni (I-IV);
- ufficio congrue, assegni al clero e spese di culto (istituito nel 1910 e divenuto divisione V dal 1912);
- divisione di ragioneria (originariamente con tre sezioni, ne arrivava a contare sei dal 1912).
A parte i casi delle divisioni congrue e di ragioneria, non è semplice dar conto della distribuzione delle competenze fra le altre divisioni, che appare molto fluida e non sempre rispondente a criteri facilmente comprensibili.
La divisione I manteneva le funzioni relative all'adempimento dei legati pii, delle spese di culto e degli oneri religiosi a carico degli enti soppressi, nonché all'ufficiatura delle chiese e alla tenuta del massimario. A ciò si aggiungevano le incombenze relative all'applicazione delle leggi di soppressione, all'iscrizione delle ipoteche, alla stipulazione dei contratti (di cui la divisione curava il repertorio), alle imposte e relative vertenze, alla tenuta degli inventari della consistenza patrimoniale. La competenza relativa al supplemento di congrua passava, ma solo fino al 1909, alla divisione II, la quale peraltro manteneva le consuete materie (enti secolari soppressi e loro patrimonio, affrancazione di prestazioni diverse, quota di concorso).
La divisione III associava alla gestione del patrimonio mobiliare (crediti, censi, canoni e livelli, decime e prestazioni in natura o denaro) altri affari come quelli relativi al quarto di rendita ai Comuni (già di competenza del Gabinetto), e ai debiti e cauzioni dei contabili, con i relativi svincoli. Ugualmente, la divisione IV era competente circa la gestione immobiliare (affitti, vendite, riparazione di immobili) e gli espropri per pubblica utilità, ma si occupava anche di rapporti con il Demanio, concentramento delle istituzioni di beneficenza, riversibilità e devoluzioni, doti di maritaggio, pensioni monastiche, accertamento, ricognizione e affrancazione delle passività patrimoniali. Infine, erano di sua competenza la cessione e il restauro di fabbricati monastici, la chiusura e il restauro di chiese, il concentramento di religiose, i monumenti, le librerie, gli oggetti d'arte e gli arredi sacri: materie queste che erano state già di competenza della divisione I e che, dopo il 1909, passate prima alla divisione III, furono attribuite alla divisione II. Descritte a parte negli organigrammi sono la cassa centrale e l'economato.
La novità più rilevante fu l'istituzione nel 1910 di un ufficio specificamente dedicato alle congrue, diviso in riparti, e trasformato poi, dal 1912, nella divisione V, articolata dapprima in sezioni e riparti e poi soltanto in sezioni.
Negli anni 1920-1923 l'articolazione organizzativa della Direzione generale raggiunse la sua massima estensione con un ufficio di segreteria, un ufficio del Fondo speciale per Roma, sei divisioni e una divisione di ragioneria.
Il gabinetto, che assumeva la denominazione di «ufficio di segreteria del direttore generale», manteneva le consuete competenze, comprese quella sui sussidi, di cui ora si specificavano dettagliatamente i beneficiari: religiose, clero delle terre recuperate e redente, missionari all'estero, missioni italiane in Oriente. Era ancora all'immediata dipendenza del direttore generale il Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma, cui però erano addetti soltanto due impiegati amministrativi.
Le divisioni (tutte articolate internamente in reparti anziché in sezioni) erano raggruppate sotto specifiche denominazioni, mostrando una più omogenea distribuzione delle competenze:
- «Servizi patrimoniali» (divisione I: gestione beni immobili; divisione II: gestione mobiliare);
- «Affari di culto» (divisione III: adempimenti di legati pii e oneri religiosi, spese di culto, ufficiatura di chiese, liquidazione degli assegni agli investiti dei benefici, chiusura di chiese al culto, concentramento di religiose, riparazioni agli edifici ecclesiastici, sussidi alle chiese danneggiate dal terremoto e dalla guerra);
- «Destinazione dei beni» (divisione IV: quarto di rendita ai Comuni e devoluzione agli stessi delle rendite delle chiese ricettizie, svincoli, rivendicazioni, dismissione dei beni, passaggio dei beni al Demanio, accertamento della rendita immobiliare, tassa del 30%, doti di maritaggio, pensioni monastiche);
- «Congrue» (divisioni V: liquidazioni; VI: reclami e vertenze giudiziarie).
La divisione di ragioneria constava di ben nove reparti, di cui uno dedicato al Fondo speciale per Roma e sette al Fondo per il culto, mentre un reparto speciale si occupava di bilanci e conti consuntivi del Fondo per il culto, mandati diretti di anticipazione del Fondo per il culto, trattazione di questioni di carattere finanziario relative anche al Fondo di beneficenza e religione in Roma. Nell'organigramma figura sempre in posizione separata la cassa centrale ed economato.
La distribuzione degli affari continua tuttavia a mostrare caratteri di disomogeneità. Ad esempio, la divisione I continuava ad occuparsi anche degli affari relativi alle imposte e all'applicazione delle leggi di soppressione, ed acquisiva nuove competenze già pertinenti ad altre unità organizzative (stralci di quota curata, quota di annuo concorso), mentre alla divisione II passavano i servizi relativi all'ispezione, ai contabili periferici e alle ipoteche. La divisione III, investita degli «affari di culto», si occupava anche dei monumenti, della cessione dei fabbricati ex conventuali, della devoluzione di librerie, oggetti d'arte e arredi sacri.
Durante il periodo fra 1924 e il 1929 - ossia quando per dettato normativo si era inteso accentrare i servizi dei due Fondi a scopo di culto nelle mani del direttore generale dei culti, per poi approdare alla soluzione dell'Amministrazione autonoma - l'organizzazione interna sembra aver subito tentativi di rimodulazione non giunti a perfezione. Fra il 1924 e il 1926 scomparvero le partizioni generali delle divisioni, per riapparire nel 1927, ridotte a due: «Servizi patrimoniali» (divisioni I-IV) e «Congrue» (divisioni V, VI); scomparve, inoltre, la divisione ragioneria nel 1924-25, per riapparire nel 1926, denominata semplicemente «Ragioneria». Tutte le divisioni tornarono ad essere articolate in sezioni (due per ciascuna, ad eccezione della Ragioneria che ne ebbe cinque) e non più in reparti. Peraltro, fra il 1924 e il 1927 la divisione I vide temporaneamente affidate le sue attribuzioni alle divisioni III e IV. Tutto ciò è probabilmente sintomo di una fase di travaglio attraversata dalla gestione amministrativa indotta dal mutamento normativo sopra accennato («Guida Monaci», 1924-1928; «Annuario giudiziario», 1927).
Occorre a questo punto una precisazione. Fino al 1927 (v. «Guida Monaci» e «Annuario giudiziario») compaiono negli organigrammi gli uffici della «Ragioneria» (nel 1927 «Ragioneria centrale»). Si trattava tuttavia di uffici dipendenti dal Ministero delle finanze, poiché il r.d. 28 gennaio 1923, n. 126 aveva stabilito che gli uffici di ragioneria delle Amministrazioni centrali cessassero di appartenere alle stesse e fossero trasferiti alla diretta dipendenza del Ministero delle finanze; e così anche che il personale di ragioneria in servizio al 1° gennaio 1923 facesse passaggio nei ruoli di ragioneria, d'ordine e subalterno del medesimo Ministero. Ciò fu previsto anche per il personale di ragioneria del Fondo per il culto (cfr. il r.d. 25 marzo 1923, n. 599, art. 9). Sicché nell'organico stabilito con il r.d. 11 novembre 1923, n. 2395 non compare più il personale di ragioneria e figurano 60 posti per il personale amministrativo (gruppo A), 50 per il personale d'ordine (gruppo C), 26 per il personale subalterno: per un totale di 136 posti.
Dopo il formale ripristino della Direzione generale nel 1929, venne stabilita una riduzione dell'organico di circa il 30%. Infatti, il r.d. 11 gennaio 1930, n. 29 prevedeva in totale 92 posti: 40 di gruppo A, 33 di gruppo C, 19 di grado subalterno. A questi, secondo il direttore generale dell'epoca, Raffaele Jacuzio, si aggiungevano comunque 14 funzionari a ferma temporanea (in precedenza erano 30).
Nel periodo 1929-1943 (durante il quale si verificò il trasferimento della Direzione generale alle dipendenze del Ministero dell'interno, nel 1932) l'organizzazione fu normalmente imperniata su sei divisioni, cui si aggiunse un ufficio del contenzioso all'immediata dipendenza del direttore generale. Si deve però precisare che la divisione I assorbì per gran parte del periodo le funzioni precedentemente assegnate all'ufficio di segreteria, il quale fu ricostituito autonomamente solo dal 1935 al 1938. Sempre alla divisione I toccò nel 1931 la gestione dei «Patrimoni riuniti ex economali», istituiti dalla legislazione concordataria, e, dal 1934, la gestione del Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma, precedentemente affidata alla divisione IV. Quest'ultima perse anche le altre competenze (enti secolari soppressi, rapporti con il Demanio, devoluzione ai Comuni delle rendite delle chiese ricettizie soppresse, applicazione delle leggi di soppressione, gestione del patrimonio immobiliare: competenze trasferite poi alla divisione II), e fu applicata interamente alla materia delle congrue, come le divisioni V e VI (quest'ultima peraltro soppressa dal 1934 al 1939). Alla IV era anche affidata una funzione prevista dalla normativa concordataria e dalla disciplina sulle congrue: il nulla osta per l'erezione di nuovi benefici curati e per atti e contratti eccedenti l'ordinaria amministrazione. Proveniente dalla medesima normativa era inoltre la funzione concernente la consegna di chiese, già annesse ad enti soppressi, all'autorità ecclesiastica e la retrocessione di locali per rettoria, competenza attribuita dal 1932 alla divisione III.
Per quanto riguarda il personale in servizio presso il Ministero della giustizia, esso fu trasferito alle dipendenze del Ministero dell'interno; quello appartenente all'Ordine giudiziario fu però solo temporaneamente comandato (regio decreto-legge 19 agosto 1932, n. 1080). Il ruolo del personale di gruppo A (v. r.d. 29/1930) fu conservato come ruolo separato nel nuovo Ministero, ma solo come ruolo transitorio fino al suo esaurimento. I posti di tale ruolo, resisi vacanti, sarebbero stati poi portati in aumento a quelli del ruolo generale del Ministero.
Nel periodo 1945-1956 non vi furono mutamenti sostanziali alla struttura organizzativa sopra descritta. Tuttavia, si deve osservare che la segreteria della Direzione generale come ufficio separato venne ricostituita a partire dal 1947; un ufficio del contenzioso alle dirette dipendenze del direttore generale funzionò nel 1945 e nel 1956, mentre fra il 1947 e il 1955 esso fu aggregato alla divisione I. Nell'ambito di quest'ultima fu peraltro in attività, dal 1947 al 1949, un ufficio affari generali, il quale dal 1950 al 1955 divenne divisione autonoma (dal 1951 al 1955 assumendo la denominazione di divisione affari generali e riservati).
Dal 1947 la divisione I si occupava anche delle Aziende di culto acquisite nel 1929, poi le fu assegnata anche la concessione di sussidi personali e di ufficiatura al clero. La divisione II era competente della gestione patrimoniale del Fondo per il culto, mentre alla divisione III furono affidati i restauri e le cessioni di chiese e fabbricati monastici, nonché la gestione del Fondo speciale per Roma. Le divisioni IV, V e VI continuarono ad occuparsi delle congrue. Negli anni 1954-1955 funzionò anche una divisione III bis, che si occupava di retrocessione di chiese e locali ex conventuali e della costruzione di nuove chiese parrocchiali.
Nel 1956, la Segreteria, oltre gli affari riservati e urgenti e il personale, si trovava investita dei sussidi al clero, ai seminari e alle comunità religiose, mentre alla divisione I toccavano le chiese nazionali all'estero (contributi per ufficiatura, manutenzione, costruzione) e i contributi ai missionari. Da essa dipendevano, inoltre, l'archivio e la biblioteca. Nella divisione II era concentrata la gestione patrimoniale (e la ricognizione inventariale) di tutte le Aziende di culto, compreso il Fondo speciale per Roma; ma la divisione si occupava anche di retrocessione di chiese ex conventuali e includeva i servizi contabili di tutta la Direzione generale. La divisione III era competente in materia di restauri agli edifici religiosi e di arredi sacri, nonché di contributi per la manutenzione delle chiese di Roma. Alle divisioni IV-VI erano affidate, come in precedenza le congrue, ma alla IV anche i pareri per permute e alienazioni di immobili in dotazione ai benefici ecclesiastici, nonché gli affari inerenti alla costruzione di nuove chiese parrocchiali.
Nel 1957 la gestione delle congrue venne concentrata nelle divisioni V e VI, mentre la divisione III e la IV si occupavano di contributi per restauri ad edifici sacri (la divisione IV limitatamente a quelli della città di Roma) e per arredi sacri (la divisione III solo quando la richiesta fosse stata fatta con la stessa domanda di contributo per restauri). La divisione IV era inoltre competente per i pareri circa la costruzione di nuove chiese e case canoniche in virtù della l. 18 dicembre 1952, n. 2522.
Con il d.m. 5 dicembre 1957 si affermava un ordinamento che sarebbe durato fino al 1973, lievemente modificato da successivi provvedimenti:
- Segreteria: assegnazione della corrispondenza alle divisioni, raccolta della firma, pubblicazioni scientifiche e specializzate, rapporti con il Gabinetto del Ministro e le Segreterie dei Sottosegretari, coordinamento degli uffici e dei servizi, archivio riservato, personale della Direzione generale, spedizione, segreterie dei Consigli di amministrazione, ufficio copia
- Servizio studi ed ispezioni: studio preliminare sui provvedimenti legislativi, dati statistici, servizio ispettivo
- Divisione affari generali (sez. I, II): affari generali, sussidi personali al clero e per ufficiatura, contributi ai seminari diocesani, sussidi alle comunità religiose, archivi e biblioteca; contributi per restauri e costruzione edifici ecclesiastici nazionali all'estero e per le missioni
- Divisione restauri e arredi sacri (sez. I-IV): contributi per restauri di edifici religiosi e per acquisto e manutenzione di arredi sacri
- Divisione patrimonio (sez. I, II): gestione patrimoniale di tutte le Aziende di culto, cessione di chiese e fabbricati monastici, pareri sul riconoscimento di nuove parrocchie
- Divisione congrue (sez. I-III)
- Divisione contenzioso (sez. unica): rapporti con l'autorità giudiziaria e Avvocatura dello Stato; riscossione e affrancazione di canoni e censi; accertamento della natura giuridica di tali prestazioni; devoluzione delle rendite delle chiese ex ricettizie
- Divisione contabilità, bilanci, economato e cassa (sez. I, II): servizi contabili della Direzione generale, esame dei bilanci, aperture di credito a favore delle Prefetture e delle Intendenze di finanza e revisione amministrativa e contabile dei rendiconti dei funzionari delegati, mandati per pagamenti diretti, economato e cassa.
Nel 1958 le sezioni della divisione congrue furono ridotte da tre a due e furono istituite una sezione per la divisione contenzioso e un'altra per la divisione contabilità, al fine di provvedere alla liquidazione di un vitalizio istituito per i titolari dei benefici congruati. Nel 1960 il numero delle sezioni della divisione congrue fu portato a quattro (per consentire una ripartizione territoriale della materia) e furono istituiti un centro meccanografico nonché, per ciascuna divisione, un servizio copia. Nel 1961 fu assegnata alla divisione patrimonio la competenza per i canoni e censi già attribuita alla divisione contenzioso, che divenne ufficio del contenzioso, alle dirette dipendenze del direttore generale. Nel 1962, infine, i servizi autonomi (Studi e ispezioni, Contenzioso, Meccanografico e Chiese nuove-legge 2522/1952) vennero raggruppati, per un coordinamento delle loro attività, mentre la segreteria fu trasformata in divisione affari riservati e coordinamento, allo scopo di dare una più appropriata denominazione alle molteplici attribuzioni demandatele (decreti ministeriali 31 dicembre 1958, 15 dicembre 1960, 16 giugno 1961, 12 maggio 1962 (con decorrenza retroattiva al 1 aprile 1962), 28 aprile 1962).
Come si vede, l'attività della Direzione generale si articolava in tre grandi settori: la gestione patrimoniale, il trattamento economico del clero (congrue), ed infine l'erogazione di tutta una serie di sovvenzioni. Queste ultime consistevano in contributi per la costruzione e i restauri di chiese - quelle ben inteso non di proprietà dell'Amministrazione - per il loro arredamento ed ufficiatura, nonché in sussidi personali concessi al clero povero oltre all'assegnazione del supplemento di congrua. In quest'ultimo settore la trattazione degli affari aveva assunto una dimensione notevole, come dimostra la distribuzione delle competenze, che erano attribuite, oltre che alla Divisione affari generali, alla Divisione restauri e arredi, quest'ultima articolata in ben 4 sezioni, ciascuna addetta ad una circoscrizione territoriale formata da un gruppo di regioni.
Il d.m. 2 agosto 1973 delineava l'ultima configurazione organizzativa della Direzione generale, prima della sua soppressione quattro anni più tardi:
- Divisione affari riservati e generali: affari riservati; coordinamento uffici e personale della Direzione generale; costruzione di nuovi complessi parrocchiali; segreteria del direttore generale; segreteria dei Consigli di amministrazione; questioni che esulano dalla competenza delle altre divisioni
- Divisione affari patrimoniali: gestione patrimoniale delle Aziende del Fondo per il culto, del Fondo di beneficenza e di religione della città di Roma e dei Patrimoni riuniti ex economali; Foresta di Tarvisio e Casa di riposo del clero di Nerola; assegnazione e retrocessione chiese ex conventuali ed edifici annessi; studi e contenzioso
- Divisione congrue: assegni di congrua e relativo contenzioso
- Divisione interventi per costruzione e restauro edifici di culto: sovvenzioni ed interventi per costruzioni, ampliamento e restauro di chiese, edifici ecclesiastici ed opere annesse, nonché per acquisto e manutenzione di mobili ed arredi sacri
- Divisione sovvenzioni a favore del clero bisognoso e per ufficiatura chiese: sovvenzioni ed interventi a favore del clero, del personale addetto al culto, dei seminari e delle comunità religiose, nonché per ufficiature di chiese; concorsi e sussidi per spese di culto e di diffusione religiosa all'estero; concorsi per restauro di edifici ecclesiastici nazionali all'estero
- Divisione gestioni contabili: gestione capitoli di spesa e fondi di riserva; accertamento e controllo entrate patrimoniali; custodia titoli mobiliari e riscossione rendite relative; inventario beni mobili; servizio cassa e vice consegnatario della Direzione generale
Nel 1974 vennero modificate le attribuzioni della divisione affari riservati e coordinamento, con l'espunzione degli affari riservati, e pertanto mutò la denominazione dell'unità organizzativa in «divisione affari generali e coordinamento». Inoltre, si precisò che la divisione gestione contabili avrebbe amministrato soltanto i propri capitoli di spesa, ad esclusione cioè di quelli amministrati dalle altre divisioni in relazione alle rispettive competenze (d.m. 16 maggio 1974).
Il citato decreto ministeriale del 1973 prevedeva che fossero assegnati alla Direzione generale due viceprefetti, con compiti di ispettore generale, che, alle dirette dipendenze del direttore generale, accertassero con continuità la regolarità amministrativa e contabile e il corretto svolgimento dell'azione amministrativa di più divisioni, coordinandone l'attività e assicurando una razionale organizzazione dei servizi e la corretta utilizzazione del personale. Nel 1976 risultavano coordinate la divisione affari generali e coordinamento con la divisione affari patrimoniali, nonché la divisione congrue con la divisione gestioni contabili.
La soppressione degli enti ecclesiastici, iniziata nel Regno di Sardegna nel 1855, con l'abolizione della personalità giuridica civile di diversi Ordini religiosi ed enti del clero secolare, fu estesa ai territori dell'Umbria, delle Marche e delle Province napoletane (la parte continentale del Regno delle Due Sicilie) che progressivamente furono annessi allo Stato sabaudo nel 1860 e 1861 (cfr.: legge 29 maggio 1855, n. 878, decreto del commissario generale straordinario per le Province dell'Umbria dell'11 dicembre 1860, n. 205, decreto del commissario generale straordinario per le Province delle Marche del 3 gennaio 1861, n. 705, decreto del luogotenente del re nelle Province napoletane del 17 febbraio 1861, n. 251). La Cassa ecclesiastica fu l'ente patrimoniale istituito con i beni, mobili e immobili, già appartenuti agli enti soppressi. Si può dire in estrema sintesi che compito del nuovo ente era quello di sostituirsi allo Stato o ai Comuni nella loro funzione di intervento finanziario in favore del culto cattolico. Infatti, il patrimonio della Cassa, tutto di provenienza ecclesiastica (ai beni degli enti soppressi era stata aggiunta anche la contribuzione da parte di quelli conservati) e tenuto distinto da quello statale per garantirne la permanenza delle finalità, doveva essere impiegato in via transitoria per il sostentamento dei religiosi e degli ecclesiastici colpiti dalla soppressione; in via definitiva per il sostegno del clero più bisognoso, addetto alla cura delle anime (quindi soprattutto i parroci). In tali compiti di natura "ecclesiastica" rientrava pure quello di provvedere finanziariamente alla ufficiatura delle chiese che, in conseguenza delle norme di soppressione, erano rimaste prive di sacerdoti; nonché, marginalmente, di elargire fondi per la beneficenza soprattutto nel campo dell'istruzione. Sia nell'ambito di questo tipo d'intervento o comunque per fini di pubblica utilità, sia in forza di talune norme, sia nella pratica gestione del patrimonio, la Cassa ecclesiastica mise a disposizione dello Stato e dei Comuni un certo numero di fabbricati di provenienza soprattutto monastica e conventuale.
Le inefficienze nell'amministrazione della Cassa, nonché, soprattutto, le stringenti esigenze del bilancio statale comportarono il tentativo di mettere a frutto a vantaggio della finanza pubblica il patrimonio immobiliare proveniente dagli enti soppressi. La legge 21 agosto 1862, n. 794 dispose dunque il passaggio di questo patrimonio al Demanio statale che, in corrispettivo, avrebbe attribuito alla Cassa ecclesiastica un equivalente valore in rendita pubblica, e avrebbe provveduto poi alla vendita degli immobili ai privati.
Le vicende fin qui delineate prefigurano quelle che si verificarono successivamente nel corso dell'estensione della normativa di soppressione al resto del territorio nazionale nel nuovo Stato unitario. Ciò avvenne in primo luogo con il regio decreto luogotenenziale 7 luglio 1866, n. 3036, che tuttavia si limitò a colpire, ma senza eccezioni, tutte le associazioni religiose («corporazioni religiose»), individuando fra esse, con riferimento alla qualità dei voti professati dai loro componenti, gli Ordini (voti solenni), le Congregazioni regolari (voti semplici) e quelle secolari (vita comune dei componenti, ma senza voti). La soppressione veniva estesa poi ai conservatorî e ai ritiri, ma entrambi solo se avessero carattere ecclesiastico e vita in comune dei componenti. La legge poi, specificando maggiormente, dichiarava soppressi anche i singoli istituti appartenenti alle «corporazioni» del tipo sopra richiamato. A differenza della normativa preunitaria, venivano pienamente riconosciuti ai religiosi i diritti civili e politici, ma si prescrisse che tutte le case fossero sgomberate, con la sola eccezione delle monache che ne avessero fatto richiesta ed avessero regolarmente professato i voti prima della pubblicazione della legge, salva comunque la possibilità di essere concentrate, per ordine del Governo, in un'altra casa quando si fossero ridotte al numero di sei oppure quando si fossero ravvisati motivi di ordine o servizio pubblico.
La Cassa ecclesiastica veniva soppressa e il suo patrimonio era trasferito a un nuovo ente, il Fondo per il culto, che avrebbe avuto funzioni analoghe a quelle del precedente: anche in questo caso si delineava dunque la figura di un ente patrimoniale a scopi principalmente di culto e di beneficenza. Come per la Cassa, così anche per il Fondo era previsto un Consiglio di amministrazione e una Commissione di vigilanza.
Oltre che con quanto ereditato dalla disciolta Cassa ecclesiastica e con quanto ricavato dall'imposizione progressiva sugli enti ecclesiastici conservati (la cosiddetta quota di concorso, già prevista dalla normativa di soppressione preunitaria), le rendite del Fondo per il culto venivano ad essere costituite mediante il meccanismo introdotto dalla citata l. 794/1864 e che nell'attuale norma assumeva il nome di «conversione». Infatti, tutti i beni di qualunque specie (non solo quindi gli immobili), appartenuti alle corporazioni religiose soppresse erano devoluti al Demanio, per la successiva vendita ai privati. Il Fondo avrebbe ricevuto in contropartita una rendita pubblica del 5% equivalente a quella devoluta. L'operazione, rispetto a quella attuata con la legge del 1864, presentava aspetti maggiormente vantaggiosi per l'amministrazione demaniale, poiché, oltre al fatto che a quest'ultima fosse riconosciuta per spese di amministrazione una percentuale del 5% sulla rendita pubblica inscritta, la rendita devoluta era calcolata sulla base delle denunce per la tassa di manomorta presentate dagli enti prima della loro soppressione, con presumibile sottostima del valore reale dei beni.
Dalla vendita furono esclusi i beni appartenuti alle corporazioni religiose in Sicilia, poiché si decise di proseguire nell'applicazione della l. 10 agosto 1862, n. 743, in base alla quale i beni rurali ecclesiastici dell'isola dovevano essere dati in enfiteusi perpetua redimibile (la cosiddetta censuazione). In questo caso, il Demanio si sostituì nel rapporto enfiteutico agli enti religiosi soppressi.
L'art. 28 del d.lgt. 3036/1866 stabiliva, in ordine di precedenza, gli impieghi che il Fondo per il culto avrebbe dovuto effettuare con le proprie rendite, procedendo, secondo le risorse disponibili, al pagamento di:
1) oneri inerenti ai beni passati al Demanio, e che erano stati trasferiti sulla rendita pubblica ricevuta (essi potevano avere un carattere puramente economico oppure di culto o di beneficenza), nonché oneri già a carico della Cassa ecclesiastica;
2) pensioni agli appartenenti alle corporazioni religiose soppresse, secondo importi commisurati ora non più alla rendita delle case religiose di pertinenza, ma alla qualità dei religiosi e alla loro età, e riconosciuti anche ai componenti degli Ordini mendicanti (altre norme in materia furono stabilite con l. 29 luglio 1868, n. 4493);
3) tutti gli oneri posti a carico del bilancio statale per spese del culto cattolico;
4) supplemento di congrua ai parroci con un reddito minore a 800 lire annue e titolari di parrocchie di oltre 200 abitanti;
5) spese di culto sostenute dalle Province e dai Comuni.
Ma la norma predisponeva anche un meccanismo di liquidazione del patrimonio "regolare" del Fondo per il culto, ossia la parte pervenuta dalla soppressione delle corporazioni religiose: la rendita pubblica derivante dalla conversione dei loro beni avrebbe dovuto essere completamente devoluta a favore dei Comuni e dello Stato. Man mano che fosse cessato l'onere del trattamento pensionistico a beneficio dei religiosi, l'avanzo sarebbe stato assegnato per un quarto a ciascun Comune (al quale spettava in relazione alle rendite delle case religiose soppresse già residenti sul proprio territorio) e per tre quarti allo Stato. Ai Comuni della Sicilia il rispettivo quarto doveva essere trasferito con anticipo, ossia dal 1° gennaio 1867, insieme però all'onere del pagamento delle pensioni ai religiosi.
Quanto alla destinazione dei diversi cespiti patrimoniali del Fondo per il culto vi era dunque una diversa valutazione degli enti ecclesiastici operata dal legislatore in relazione alla loro pubblica utilità. Infatti, se il mondo degli Ordini e delle Congregazioni era ritenuto inutile se non addirittura dannoso per la società e perciò il suo patrimonio andava alla fine devoluto interamente allo Stato e agli enti locali, si annetteva una indiscussa utilità sociale al clero secolare cui era affidata la cura delle anime, e pertanto si riteneva opportuno fornire un sostegno economico alla parte più povera di esso con le risorse drenate dalle sostanze del clero meglio provvisto per mezzo della quota di concorso e poi, come si vedrà, dalla soppressone degli enti secolari.
Ma gli enti conservati (ossia non soppressi) non furono colpiti solo dalla quota di concorso: con l'eccezione dei benefici parrocchiali e delle chiese ricettizie, tutti gli altri furono privati dei beni immobili (anche di quelli che avessero acquistato in futuro), i quali, una volta trasferiti al Demanio e resi disponibili per la vendita, dovevano essere "convertiti" in rendita pubblica con le stesse modalità adottate per i beni degli enti soppressi, ma con la differenza che i titoli di rendita sarebbero stati assegnati agli enti espropriati e non al Fondo per il culto (art. 11; per alcuni aspetti interpretativi della norma circa i beni delle fabbricerie, dei capitoli cattedrali, ecc., si veda la l. 11 agosto 1870, n. 5784, allegato P, artt. 1, 2) ).
Alcune categorie di beni furono escluse «dalla devoluzione al Demanio e dalla conversione» (d.lgt. 3036/1866, art. 18), almeno fino a che cessassero di essere destinati agli usi previsti dalla norma (art. 32). Si trattava di beni appartenenti ad enti conservati, che rimasero in proprietà di questi ultimi: i palazzi vescovili, i fabbricati dei seminari, gli edifici che servivano di abitazione agli investiti degli enti ecclesiastici con orti, giardini e cortili annessi; i beni delle cappellanie laicali e dei benefici di patronato laicale o misto (che avrebbero potuto essere svincolati dai patroni laici, una volta che questi enti fossero stati soppressi, come di fatto avvenne di lì a poco). Vi erano categorie di beni provenienti dal patrimonio delle corporazioni religiose soppresse, per i quali si dispose una diversa destinazione:
- i fabbricati monastici o conventuali, i quali avrebbero dovuto essere ceduti gratuitamente ai Comuni e alle Province che ne avessero fatto richiesta entro un anno dalla pubblicazione della legge, per trasformarli in scuole, asili, ricoveri di mendicità, ospedali o altre opere di beneficenza e di pubblica utilità (in caso di mancata richiesta essi sarebbero stati devoluti al Demanio); quelli occupati temporaneamente dalle religiose, che però una volta sgombrati avrebbero dovuto essere a disposizione dei Comuni e delle Province ed eventualmente del Demanio;
- i libri, i manoscritti, i documenti scientifici, gli archivi, nonché oggetti d'arte, beni mobili ad uso di culto, quadri, statue, arredi sacri esistenti negli edifici (dunque nei fabbricati conventuali e non nelle chiese), i quali dovevano devolversi a pubbliche biblioteche o a musei nelle rispettive province con decreto del ministro di grazia e giustizia e dei culti, previ accordi con quello della istruzione pubblica;
- i beni mobili e gli effetti lasciati ai religiosi per il loro uso personale.
Esentati dalla devoluzione e dalla conversione erano poi altre due categorie di beni che potevano far parte del patrimonio degli enti soppressi o di quelli conservati:
- gli edifici di culto, per i quali si fosse deciso di mantenere questa destinazione (la decisione spettava al ministro di grazia e giustizia e dei culti), insieme ai quadri, statue, mobili e arredi sacri ivi presenti e destinati ad esservi conservati come «inservienti al culto»: essi sarebbero rimasti ovviamente in proprietà degli enti conservati, ma quelli provenienti da enti soppressi, escludendosi la loro devoluzione allo Stato, sarebbero pervenuti in proprietà del Fondo per il culto che di quegli enti era il successore avendone peraltro ereditato anche gli oneri economici e di culto;
- gli edifici (con le loro adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti d'arte, strumenti scientifici) delle Abbazie di Montecassino, Cava de' Tirreni, S. Martino della Scala (esclusa poi dalla l. 21 luglio 1869, n. 5195), Monreale, della Certosa di Pavia e di «altri simili stabilimenti ecclesiastici distinti per la monumentale importanza e per il complesso dei tesori artistici e letterari»: alla conservazione di essi avrebbe provveduto il Governo (dunque il Ministero dell'istruzione pubblica), ma a spese del Fondo per il culto.
La l. 11 agosto 1870, n. 5784, allegato P, all' art. 3 escluse dalla conversione le cave di marmo delle fabbricerie, destinate esclusivamente alla manutenzione, riparazione e completamento delle chiese dichiarate monumenti patrii per decreto reale. L'art. 4 della legge chiariva che erano esentati dalla conversione gli edifici utilizzati per ufficio e abitazione dei rettori, cappellani, coadiutori e inservienti delle chiese, nella parte strettamente necessaria.
A proposito dei fabbricati monastici o conventuali, erano esclusi dalla concessione ai Comuni e alla Province quelli che si trovavano occupati dallo Stato per pubblico servizio o quelli adattabili a carcere; mentre dovevano intendersi definitivamente acquistati dallo Stato o dai menzionati enti locali quelli già ad essi concessi in esecuzione delle precedenti leggi di soppressione (d.lgt. 3036/1866, att. 20 e 21).
Il regolamento esecutivo del d.lgt. 3036/1866 fu approvato con r.d. 21 luglio 1866, n. 3070, recante la disciplina particolare di diverse materie relative alla struttura amministrativa deputata alla gestione del Fondo per il culto; alle prese di possesso; alla liquidazione e pagamento delle pensioni ai religiosi; allo scioglimento dell'amministrazione della Cassa ecclesiastica; alla quota di concorso; alla devoluzione e conversione dei beni immobili; alla esecuzione della norma nelle province siciliane. Con il r.d. 28 luglio 1866, n. 3090 la legge di soppressione delle corporazioni religiose e il suo regolamento furono estesi al Veneto appena liberato dalla dominazione austriaca.
Successivamente, con il d.lgt. 22 settembre 1866, n. 3443 passavano al Demanio i beni mobili, crediti e rendite di ogni natura pervenuti alla Cassa ecclesiastica dai vari enti soppressi prima del 1866 con l'obbligo di inscrivere a favore del Fondo per il culto una equivalente rendita pubblica del 5%. Il Demanio poi riceveva, questa volta però solo in amministrazione, i beni mobili e immobili della stessa provenienza, ma non disponibili.
Con la l. 15 agosto 1867, n. 3848 l'estensione a tutto il territorio nazionale delle norme di soppressione conobbe una seconda e conclusiva fase, colpendo gli enti del clero secolare in una gamma più vasta rispetto a quella contemplata nella legislazione preunitaria. Fra gli enti collegiali furono senz'altro soppressi i Capitoli delle chiese collegiate, le chiese ricettizie e le comunìe, salvo il mantenimento di un solo beneficio curato, anche mediante stralcio di una quota dalla massa capitolare indivisa. I capitoli delle chiese cattedrali furono invece conservati, ma in essi vennero colpiti i canonicati, i benefici e le cappellanie di patronato regio e laicale e fu ridotto il numero dei restanti benefici, non consentendo più di 12 canonicati e 6 cappellanie per Capitolo (su ciò si veda anche l. 11 agosto 1870, n. 5784, allegato P, art. 8). Come in precedenza, caddero sotto la scure della soppressione i benefici semplici, le cappellanie ecclesiastiche e laicali, le istituzioni con carattere di perpetuità, variamente denominate, ma genericamente qualificate come fondazioni o legati pii per oggetto di culto, anche se non erette in titolo ecclesiastico. Vennero però eccettuate le fabbricerie od opere, il cui scopo era la conservazione dei monumenti e degli edifici sacri che si sarebbero conservati al culto. Entravano inoltre nel novero degli enti soppressi le abbazie e i priorati di natura abbaziale, ed infine le prelature.
La legge, oltre a disciplinare la vendita dei beni immobili ai privati (di competenza dell'amministrazione demaniale), introdusse una novità circa il sistema della conversione, determinando un nuovo svantaggio del Fondo per il culto nel suo rapporto con il Demanio. A quest'ultimo, infatti, sarebbero stati trasferiti soltanto i beni immobili degli enti secolari soppressi, contro la solita inscrizione di rendita nelle modalità sopra descritte. Canoni, censi, livelli, decime ed altre annue prestazioni sarebbero stati invece assegnati al Fondo per il culto, che avrebbe ricevuto indietro anche quelli passati al Demanio per effetto della precedente norma del 1866, e che perciò doveva restituire la rendita pubblica corrispondente già acquisita. Al posto dunque del sicuro cespite proveniente dai titoli del Debito pubblico, il Fondo avrebbe avuto una massa di proventi spesso di difficile esigibilità, la cui laboriosa gestione venne per di più affidata al Demanio, ad un soggetto cioè non direttamente interessato a ricavarne il maggior profitto.
Come nelle precedenti norme di soppressione, anche in questa del 1867 veniva garantita la sussistenza degli ecclesiastici che si fossero trovati investiti dei benefici soppressi oppure partecipanti delle chiese ricettizie, delle comunìe o delle cappellanie corali colpite. Ad essi, tuttavia, non si lasciavano più in usufrutto vita natural durante i beni fino ad allora goduti, ma il Fondo per il culto o i patroni laici (nel caso di beneficio di patronato) accordavano loro un annuo assegnamento corrispondente alla rendita netta della dotazione ordinaria. Nel caso di chiese ricettizie o di comunìe con cura d'anime, una volta cessato il predetto assegnamento, la rendita pubblica e i canoni e censi assegnati al Fondo per il culto dal Demanio sarebbero passati ai rispettivi Comuni, che avrebbero dovuto con queste risorse dotare le fabbricerie parrocchiali e costituire il supplemento di congrua ai parroci. Tuttavia, in seguito, la l. 4 giugno 1899, n. 191 permise di anticipare tale passaggio, purché i Comuni si accollassero il pagamento dell'assegnamento ai superstiti partecipanti e di una rendita perpetua al Fondo.
Per quanto riguarda i diritti di riversione ai privati o di devoluzione ai Comuni o ad altri enti morali (ma tra questi erano esclusi gli ecclesiastici), essi erano salvaguardati, sia del d.lgt. 3036/1866, sia dalla l. 3848/1867 per i beni dei rispettivi enti soppressi, a condizione che fossero esercitati non sui beni, ma sulla rendita pubblica nella quale erano stati convertiti, e che se ne facesse richiesta entro cinque anni dalla pubblicazione di ciascuna delle due norme. I patroni laici dei benefici soppressi dalla legge del 1867 avrebbero potuto rivendicarne i beni, entro un anno dalla promulgazione, pagando al Demanio il 30% del valore calcolato al lordo degli oneri passivi. Ugualmente entro un anno, i beni delle prelature, delle cappellanie e delle fondazioni pie soppresse s'intendevano svincolati mediante il pagamento della doppia tassa di successione fra estranei. A carico di tutti gli svincolanti rimaneva però l'adempimento degli oneri connessi agli enti i cui beni erano stati svincolati.
Infine, la legge del 1867 introdusse un prelievo straordinario del 30%, che rappresentò l'incameramento vero e proprio di una quota di tutto il patrimonio ecclesiastico: infatti, non era prevista alcuna compensazione al prelievo e quest'ultimo fu disposto anche nei confronti del Fondo per il culto (cioè dunque anche sui beni degli enti soppressi), che vide diminuire del 30% la rendita pubblica ad esso spettante. Fu però prevista l'esenzione delle parrocchie e dei beni soggetti a svincolo appartenenti alle prelature e cappellanie laicali e alle fondazioni e legati pii soppressi. Altre esenzioni furono stabilite con la l. 11 agosto 1870, n. 5784, allegato P, artt. 5 e 6.
Mette conto osservare che l'art. 17 del r.d. 22 agosto 1867, n. 3852 (con il quale fu approvato il regolamento esecutivo della l. 3848/1867) ribadiva che rimanevano esclusi dalla vendita:
- i fabbricati dei conventi occupati per servizio governativo o adatti a essere adibiti a carcere;
- gli edifici conservati all'uso di culto;
- i monumenti e i chiostri monumentali;
- i dominî diretti, i censi, i livelli, le decime e le annue prestazioni di qualunque natura;
- i fabbricati dei conventi concessi o da concedere alle Province o ai Comuni;
- la dotazione dei benefici passibile di essere rivendicata dai patroni laici o di essere svincolata, entro un anno dalla promulgazione della legge.
A proposito delle chiese aperte al culto, mentre quelle già annesse ai conventi e ai monasteri soppressi dal d.lgt. 3036/1866 erano state dichiarate esenti dalla devoluzione al Demanio e dalla conversione (e dunque si doveva intendere fossero toccate in proprietà al Fondo per il culto), quelle già unite agli enti secolari soppressi con la legge del 1867 erano eccettuate soltanto dalla vendita e quindi dovevano considerarsi devolute comunque al Demanio come tutti gli altri beni appartenuti a quegli enti (cfr. l. 3848/1867, art. 2).
Dalla sua posizione di proprietario, nonché dalle precedenti norme di soppressione, discendeva l'obbligo in capo al Fondo per il culto di provvedere alla manutenzione e all'ufficiatura delle chiese pervenutegli in forza del d.lgt. 3036/1866, con la nomina e revoca degli ufficianti, la vigilanza sul loro comportamento e sulle funzioni religiose. La cura perché fosse mantenuta la destinazione al culto pubblico degli edifici risulta dunque come l'unica attività permessa al Fondo per il culto, con esclusione perciò di ogni forma di alienazione. Il principio fu poi esplicitamente sanzionato dall'art. 9 del r.d. 23 maggio 1927, n. 827 (regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità dello Stato), secondo il quale i beni indisponibili sono «quei beni che per la loro destinazione ad un servizio pubblico o governativo ovvero per disposizioni di legge non possono essere alienati o comunque tolti dal patrimonio dello Stato».
Occorre anche far rilevare un mutamento introdotto nel regime degli oneri annessi ai beni convertiti. Con la norma del 1866 essi (eccettuati quelli che importassero condominio) erano stati trasferiti sulla rendita assegnata al Fondo per il culto, mentre invece la legge del 1867 stabilì che i privilegi e le ipoteche inscritte sopra i beni immobili devoluti al Demanio sarebbero rimasti inerenti ad essi, e perciò il Fondo per il culto avrebbe ricevuto una rendita pubblica diminuita della somma corrispondente agli interessi dei crediti ipotecari. Si stabilì però che dovevano cessare da ogni effetto i privilegi e le ipoteche a garanzia dell'adempimento degli oneri (religiosi) annessi alle fondazioni già amministrate dagli enti soppressi. A carico del Fondo rimanevano dunque gli oneri trasferiti nella rendita pubblica non garantiti da ipoteca e quelli ereditati dalla Cassa ecclesiastica.
Dopo il soddisfacimento degli obblighi appena ricordati e, in secondo ordine, il pagamento delle pensioni ai religiosi, il Fondo per il culto era tenuto, secondo il citato art. 28 del d.lgt. 3036/1866, a far fronte agli oneri di culto che gravavano sul bilancio statale in virtù di norme vigenti negli Stati preunitari. Per questo motivo venne accollata al Fondo la somma di un milione di lire (per la precisione un milione 23 lire e 54 centesimi) «per il soddisfacimento delle spese di culto già a carico del Ministero di grazia e giustizia», in virtù del r.d. 23 settembre 1867, n. 4033. In Parlamento si decise però per una depurazione di queste spese e la questione si protrasse fino all'emanazione del r.d. 5 dicembre 1880, n. 5810.
In quarta posizione veniva il pagamento dei supplementi di congrua, che nei fatti iniziò ad essere gradualmente effettuato dal 1885-1886. Si trattava della più importante funzione del Fondo per il culto, dato il principio generale di redistribuzione dei redditi all'interno del clero cattolico, principio da sempre sotteso alla legislazione di soppressione. Mediante questo intervento, però, non si intendeva tecnicamente incrementare il patrimonio beneficiario delle parrocchie, bensì erogare alla persona del parroco un assegno alimentare, per permettergli di adeguare il suo reddito a quello che la legge aveva stabilito come il minimo indispensabile per vivere dignitosamente: tale assegno perciò non era pignorabile, né soggetto alle imposte sul patrimonio ecclesiastico.
Solo con la l. 30 giugno 1892, n. 317, che definì per la prima volta ufficialmente l'assegno «supplemento di congrua», si giunse ad assicurare il complemento fino a lire 800, come prevedeva la norma del 1866. Un altro passo fu fatto con la l. 4 giugno 1899, n. 191, che portò la congrua a lire 900, ma con l'obiettivo, già fissato nella legge precedente, di arrivare a lire 1000. L'assegno doveva essere aumentato del 15% dell'intera congrua per le spese di culto o per il servizio di chiesa, purché non vi fossero privati o enti morali obbligati a farvi fronte (art. 2). Il regolamento fu approvato con il r.d. 25 agosto 1899, n. 350. La liquidazione dell'assegno, ossia la determinazione della sua entità, doveva essere effettuata d'ufficio dall'amministrazione del Fondo per il culto, senza attendere la domanda dell'interessato, e consisteva nell'accertamento della rendita di ciascuna parrocchia sulla base delle denunce per il pagamento della tassa di manomorta: se tale rendita fosse risultata inferiore alla congrua, si sarebbe corrisposta al parroco la differenza. Sugli eventuali ricorsi degli interessati avrebbe deciso il Consiglio di amministrazione del Fondo per il culto e, in seconda istanza, l'autorità giudiziaria.
Con il decreto legge luogotenenziale 17 marzo 1918, n. 396 (convertito dalla l. 17 aprile 1925, n. 473) per la prima volta lo Stato intervenne direttamente nel finanziamento di spese di culto, ponendo a carico del Tesoro l'aumento del supplemento di congrua per tutto l'esercizio finanziario successivo alla pubblicazione della pace che sarebbe seguita al conflitto mondiale in corso: si trattava dunque di una misura temporanea, intesa a sovvenire le risorse del Fondo per il culto, colpite dalla svalutazione occorsa nel periodo bellico. Ben presto, tuttavia, il contributo del bilancio dello Stato divenne permanente, come già può cogliersi dal d.l.lgt. 6 luglio 1919, n. 1156 (convertito dalla citata legge del 1925). Altre categorie del clero furono poi ammesse al beneficio con il regio decreto legge 2 febbraio 1922, n. 164 (convertito dalla legge predetta), fissando per ciascuna la congrua rispettiva: vicari curati autonomi e indipendenti (lire 1500), canonici e titolari di altri benefici dei capitoli cattedrali (da lire 1500 a 3000, a seconda dell'ufficio), vescovi, arcivescovi e simili (lire 12000); per costoro il supplemento di congrua doveva essere liquidato dal Fondo per il culto, ma con risorse a carico dello Stato. La congrua fu poi aumentata nel 1925 per tutte le categorie beneficiarie, con il r.d.l. 31 marzo 1925, n. 364 (convertito sempre dalla legge del 1925).
La crisi finanziaria del Fondo per il culto aveva costretto il Governo a un intervento diretto, che l'art. 30, c. 3 del Concordato (cfr. l. 29 maggio 1929, n. 810) sancì sul piano normativo definendo l'obbligo dello Stato italiano di «supplire alle deficienze dei redditi dei benefici ecclesiastici con assegni da corrispondere in misura non inferiore al valore reale di quella stabilita dalle leggi attualmente in vigore». Il trattamento economico vigente divenne definitivo, anche per quei miglioramenti che la normativa aveva fino ad allora considerati temporanei, come venne stabilito dall'art. 25 della l. 27 maggio 1929, n. 848, nel quale fu anche previsto che le somme dovute dal Tesoro al Fondo per il culto sarebbero state stabilite con decreto del ministro delle finanze di concerto con quello della giustizia. Così, il contributo statale fu consolidato alla cifra di 56 milioni per un quinquennio dal r.d.l. 5 luglio 1934, n. 1178 (convertito dalla l. 931/1935), ma si susseguirono poi sempre provvedimenti di adeguamento della congrua al valore reale della moneta. La normativa sul trattamento del clero, oggetto di diversi provvedimenti susseguitisi nel tempo, fu coordinata nel testo unico approvato con r.d. 29 gennaio 1931, n. 227, il cui regolamento fu approvato dal r.d. 29 gennaio 1931, n. 228. Per le modificazioni successive al testo unico, si vedano: decreto del Presidente della Repubblica 19 agosto 1954, n. 968, art. 26; l. 31 luglio 1956, n. 1006; l. 26 luglio 1974, n. 343; d.p.r. 1 marzo 1982, n. 290.
Altri oneri sostenuti dal Fondo per il culto erano:
- assegni ai vescovi che, a causa della tassa straordinaria del 30%, avevano visto il reddito della mensa ridursi a una cifra inferiore alle sei mila lire (art. 19 della l. 3848/1867);
- assegni agli economi spirituali di parrocchie provviste di antichi assegni erariali e d'indennità di decime poste a carico del Fondo (l. 30 dicembre 1900, n. 454, art. 4);
- spese di culto e di manutenzione delle chiese ricettizie e comunìe prima della consegna delle loro rendite ai Comuni;
- spese di manutenzione dei fabbricati conventuali o monastici prima della loro cessione ai Comuni e alle Province;
- spese per le riparazioni delle chiese di regio patronato, prive di sufficienti mezzi propri, nonché di quelle di patronato statale;
- assegni e sussidi riconosciuti al clero di Sardegna in sostituzione delle decime sacramentali abolite dalla l. 15 aprile 1851, n. 1192 (l. 23 marzo 1853, n. 1485);
- assegni alle mense vescovili e agli ecclesiastici con cura d'anime, i cui redditi si fossero ridotti rispettivamente a meno di 6.000 e meno di 800, a causa dell'abolizione delle decime sacramentali prescritta dalla l. 14 luglio 1887, n. 4727; assegni già pagati dai Comuni a compenso delle decime sacramentali precedentemente abolite;
- indennità a missioni religiose all'estero e sussidi ai missionari (onere stabilito dalle leggi di bilancio);
- assegni per la manutenzione di chiese e cappelle in Eritrea, per manutenzione e ufficiatura delle chiese in Somalia e di quella di S. Antonio in Pera (comune soggetto a Istanbul).
A carico del bilancio del Fondo per il culto erano anche:
- la spesa per la conservazione degli edifici con loro adiacenze, biblioteche archivi, oggetti di arte, strumenti scientifici e simili delle badie e alla certosa individuate dall'art. 33 del d.lgt. 3036/1866 e di altri simili stabilimenti ecclesiastici distinti per monumentale importanza e per il complesso dei tesori artistici e letterari;
- le obbligazioni con contenuto attinente alla beneficenza (borse di studio, doti di maritaggio per le fanciulle povere, doti di monacato); eccettuate le doti di monacato (devolute al Fondo per il culto stesso, perché prive di destinatarie), tali obbligazioni furono però trasferite con i relativi cespiti alle Congregazioni di carità in base alla l. 17 luglio 1890, n. 6972 sulle Opere pie;
- i cespiti già pertinenti agli enti soppressi delle province siciliane e relativi a legati di maritaggio, monacato e altri non finalizzati al mantenimento degli ospedali, alla diretta sovvenzione dei poveri o alla celebrazione di messe, da devolversi all'Azienda dei danneggiati dalle truppe borboniche in Sicilia; questa era stata originata da un fondo istituito da Giuseppe Garibaldi con decreto dittatoriale 9 giugno 1860, n. 24, per indennizzare i soggetti danneggiati negli avvenimenti di quell'anno, mediante i capitali e le rendite provenienti dai legati del tipo sopra menzionato, versati da opere di beneficenza e da enti ecclesiastici (il fondo fu poi messo a carico del bilancio dello Stato con la l. 2 aprile 1865, n. 2226);
- assegni, già previsti a carico della Cassa ecclesiastica, da versarsi al Ministero dell'istruzione pubblica e ad enti ed istituti d'istruzione delle Marche e dell'Umbria.
Nonostante il massiccio intervento dello Stato nel finanziamento delle spese relative al culto cattolico, come sopra si è visto a proposito del supplemento di congrua, non si ritenne di dover sopprimere il Fondo per il culto, né la sua personalità giuridica al fine di passare senz'altro all'incameramento erariale del suo patrimonio. La l. 848/1929 lo definisce come patrimonio destinato a fine di culto con proprio Consiglio di amministrazione e distinto bilancio, sottoposto all'approvazione del Parlamento, unitamente a quello del Ministero della giustizia e degli affari di culto.
L'art. 19 della legge predetta rimetteva al medesimo Consiglio di amministrazione del Fondo per il culto anche le deliberazioni in merito alla gestione di una nuova «Amministrazione» nata dalla riunione dei patrimoni dei soppressi Economati generali dei benefici vacanti e dei Fondi di religione dei territori annessi all'Italia dopo il 1918 e appartenuti all'ex Impero Austro-Ungarico. Tutti questi patrimoni, denominati più tardi sinteticamente «Patrimoni riuniti ex economali» (cfr. art. 83, c. 3 del r.d. 2 dicembre 1929, n. 2262, di approvazione del regolamento della l. 848/1929), congruamente integrati con stanziamenti statali (sul bilancio del Ministero di grazia e giustizia), furono destinati «a sovvenire il clero particolarmente benemerito e bisognoso, a favorire scopi di culto, di beneficenza e di istruzione» (art. 18 della l. 848/1929).
Per quanto riguarda i patrimoni degli Economati generali (soppressi questi ultimi in seguito all'abolizione del diritto di regalìa in virtù dell'art. 25 del Concordato, recepito dall'art. 18 della l. 848/1929), essi erano stati formati con la capitalizzazione degli avanzi di gestione dei benefici vacanti o sottoposti a sequestro, ma comprendevano anche aziende speciali sorte con i beni di enti ecclesiastici soppressi negli Stati preunitari a partire dal sec. XVIII. Per quanto riguarda invece i Fondi delle province ex austro-ungariche (che traevano origine dal Fondo costituito nel 1782 dall'imperatore Giuseppe II sempre con i beni degli enti ecclesiastici soppressi, per finalità analoghe a quelle che poi avrebbe avuto il Fondo per il culto in Italia), essi furono acquisiti in virtù della l. 26 settembre 1920, n. 1322, concernente l'approvazione del trattato di pace di Saint-Germain-en Laye del 10 settembre 1919, con il quale si era data sistemazione ai territori del dissolto Impero Austro-Ungarico (v. in part. l'art. 273 del trattato); della l. 19 dicembre 1920, n. 1778, che approvava il trattato concluso fra il Regno d'Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (v. in part. l'art. 2 del trattato); del r.d.l. 22 febbraio 1924, n. 211, di approvazione dell'Accordo concluso fra l'Italia ed il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, sottoscritto a Roma il 27 gennaio 1924, col quale si stabiliva che la città di Fiume ed il territorio attribuito all'Italia facevano parte integrante del Regno d'Italia. Il patrimonio dei Fondi in parola era costituito soprattutto dall'ingente comprensorio denominato Foresta di Tarvisio.
Con il Concordato del 1929 (cui fu data esecuzione, insieme al Trattato, con la l. 27 maggio 1929, n. 810) si chiudeva peraltro, dopo oltre settant'anni, la vicenda della soppressione degli enti ecclesiastici. La Santa Sede accordava, innanzitutto, «piena condonazione a tutti coloro che, a seguito delle leggi italiane eversive del patrimonio ecclesiastico, si trov[assero] in possesso di beni ecclesiastici» (art. 28 del Concordato). Gli enti cui era stata negata la possibilità di essere riconosciuti dallo Stato, potevano ora chiedere e ottenere, alle condizioni stabilite dalla legge, tale riconoscimento: così, era prescritto che sarebbe stata «riconosciuta la personalità giuridica delle associazioni religiose, con o senza voti, approvate dalla Santa Sede», e che sarebbero state «ammesse le fondazioni di culto di qualsiasi specie, purché consti rispondere alle esigenze religiose della popolazione e non ne derivi alcun onere finanziario allo Stato» (art. 29, lett. b e d): si alludeva cioè ad enti della stessa natura di quelli soppressi nel 1866 e 1867. Venne inoltre prevista la possibilità che la personalità giuridica civile fosse riconosciuta anche alle chiese pubbliche aperte al culto «comprese quelle appartenenti agli enti ecclesiastici soppressi», alle quali sarebbe stata assegnata la rendita che il Fondo per il culto destinava ad esse (art. 29 lett. a). La citata legge 848/1929, emanata per armonizzare con i principî introdotti dal Concordato la normativa sugli enti ecclesiastici e sulle amministrazioni civili dei patrimoni destinati a fini di culto (cioè, in primo luogo, il Fondo per il culto), prescrisse che le chiese già appartenute agli enti soppressi, cui fosse stata riconosciuta la personalità civile, sarebbero state consegnate all'autorità ecclesiastica (art. 6 c. 1). Fra i requisiti per il riconoscimento della personalità alle chiese fu prevista la disponibilità di mezzi economici sufficienti per la manutenzione e l'ufficiatura, aggiungendo però che, per le chiese già appartenute agli enti soppressi, doveva ritenersi sufficiente «la rendita che [all]ora il Fondo per il culto corrisponde[va] a ciascuna di esse» (r.d. 2262/1929, art. 10; v. anche art. 13).
Altro importante punto di superamento della legislazione eversiva era rappresentato, nella normativa concordataria, dalla esclusione, anche per il futuro, di qualsiasi tributo speciale a carico dei beni della Chiesa. Furono abolite dunque la tassa straordinaria del 30 per cento e la quota di concorso (Concordato, art. 29, lett. h). Quest'ultima, che era stata uno strumento di perequazione fra le rendite di benefici ecclesiastici di diverso peso economico, fu pertanto sostituita da un contributo statale al Fondo per il culto pari alla entrata del 1928-29, relativa all'imposta soppressa (l. 848/1929, art. 26, c. 3).
Occorre anche ricordare, nel clima dei nuovi rapporti fra Stato e Chiesa, il contributo del Fondo per il culto per la costruzione di nuovi edifici di culto. Il r.d.l. 8 giugno 1936, n. 1203 previde lo stanziamento nel bilancio dell'amministrazione, a decorrere dall'esercizio finanziario 1935-36 e per un trentennio, della somma annua di lire 500.000 per la costruzione di nuove chiese nell'Agro pontino e per contributi in concorso alle spese sostenute dallo Stato in questo settore, nel quadro delle operazioni di bonifica. L'intervento finanziario del Fondo cessò poi - salvo che per l'ampliamento delle chiese esistenti - dopo la l. 18 dicembre 1952, n. 2522 (modificata poi, e prolungata nei termini, dalla l. 18 aprile 1962, n. 168), che stanziò, sempre per la costruzione di nuove chiese, quattro miliardi per due esercizi finanziari, a carico questa volta del Ministero dei lavori pubblici. Ma la competenza del Fondo venne mantenuta dalle leggi appena citate, per il parere sugli atti e progetti inerenti alle nuove costruzioni, che gli dovevano essere rimessi dalla Pontificia commissione centrale per l'arte sacra, nonché per fissare, d'intesa con il Ministero dei lavori pubblici, l'ordine di precedenza da darsi alle domande di contributo. Particolarmente intensa fu poi l'attività dell'amministrazione per far fronte al forte incremento - connesso alla ricostruzione del periodo post-bellico - delle domande di finanziamento per il restauro degli edifici e degli arredi sacri ed anche per l'acquisto di questi ultimi. A tali contributi si aggiungevano quelli per le sovvenzioni personali al clero particolarmente bisognoso.
Infine, per effetto della revisione del Concordato e del conseguente mutamento del regime del sostentamento del clero cattolico in Italia, il Fondo per il culto, insieme al Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma furono soppressi a decorrere dal 1° gennaio 1987 e i loro patrimoni, insieme a quelli cosiddetti ex economali e a quelli di altre Aziende speciali di culto, furono riuniti con la denominazione di Fondo edifici di culto. I proventi di questo nuovo ente dovevano essere utilizzati soprattutto «per la conservazione, il restauro, la tutela e la valorizzazione degli edifici di culto» di sua proprietà, ereditati dai patrimoni appena ricordati (l. 20 maggio 1985, n. 222, artt. 54, 55, 58).